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Dio educa perché – e quando – salva
Motivo, cammino e meta della pedagogia del Dio dell’esodo

Nella Strenna il Rettor Maggiore ha voluto “attirare l’attenzione non tanto sui destinatari dell’opera educativa, ma direttamente – dice lui – su tutti voi, cari educatori ed educatrici, che vi sentite come Gesù consacrati e mandati dallo Spirito del Signore ad evangelizzare, liberare dalle schiavitù, ridare la vista ed offrire un anno di grazia a coloro a cui la vostra opera educativa si rivolge”.

Che questo anno la Strenna si centri nella persona dell’educatore mi sembra, senza dubbio, azzeccato. “La Strenna”, infatti, “intende essere un appello a rafforzare la nostra identità di educatori, ad illuminare la proposta educativa salesiana, ad approfondire il metodo educativo, a chiarire il traguardo del nostro compito, a renderci consapevoli della ricaduta sociale del fatto educativo”. Ma il suo pregio maggiore, a mio avviso, sta nell’identificare l’educatore con Cristo, vale a dire, nell’affermare l’uguaglianza della missione educativa con quella messianica: come Cristo, l’educatore si sente consacrato e mandato dallo Spirito ad evangelizzare, liberare dalle schiavitù, e offrire un tempo di grazia (cf Is 61.1-2). Anche se non formalmente detta, nell’identificazione dell’educatore con il Cristo si accenna la comprensione del fatto educativo come atto di salvezza, il che sarebbe tanto come dichiarare che nel cristianesimo chi salva educa e chi educa salva.

Scopo del mio intervento è approfondire, appunto, questa intuizione, vorrei presentare la salvezza di Dio come educazione e, così, animare gli educatori – e chi, se appartenente alla Famiglia Salesiana, no lo è? – a fare l’ufficio di Dio, cioè salvare educando, con tanta consapevolezza quanto efficacia. Potrei aver preso spunto da Lc 4,18-19, la citazione evangelica che le Costituzioni SDB utilizzano nel capitolo IV, quando “riformulano come manifesto educativo pastorale” “quanto don Bosco ha vissuto e detto”. Mi è sembrato però più confacente al motivo centrale e più ricco di stimolanti prospettive il proporre una riflessione biblica sull’esodo di Israele dall’Egitto, l’avvenimento creatore di Israele come popolo di Dio, poiché ci ricorda un Dio educatore perché – e sempre che - salva.

 

I. Dio salva educando

Paradigma por antonomasia di salvezza storica nella Bibbia, l’uscita dall’Egitto viene presentato nel libro dell’Esodo come una lunga e stupenda attuazione educativa divina. Per fare uscire Israele dall’Egitto Dio si diede da fare per molto tempo e con tanto entusiasmo quanta immaginazione. Quattro sono le tappe del processo educativo che Dio intraprese per salvare Israele.

La prima, preliminare ma imprescindibile, si avverò quando Dio in persona uscì dall’anonimato e si elesse Mose come mediatore facendolo uscire dalle sue occupazioni e dalla sua famiglia per fare uscire dall’Egitto il popolo di Dio (cf. Es 3,1-4,17). Dio si diede a conoscere quando fece conoscere a Mosè la salvezza che prospettava per il suo popolo.

L’altre tre sono, in realtà, fasi successive d’un unico processo di liberazione: nella prima fase, Dio impone – tanto all’Egitto oppressore come a Israele suo protetto – il lasciare lo stato di ingiusta schiavitù ed iniziare un libero servizio (Es 7,8-13,16); nella seconda, Dio fa vagare a Israele, appena iniziata la libertà, per un deserto durante quaranta anni fino a diventare suo popolo alleato (Ex 13,17-24,18); finalmente, dopo essere stato l’unico compagno di cammino e il solo alleato, Dio fa entrare Israel nella Terra promessa e nel suo riposo (Nm 27,12-23; Gs 1,1-11) ).

 

1. Il perché: la rivelazione di un Dio nuovo
Svelando se stesso, Dio educa Mose come mediatore e rappresentante

“Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo!” (Es 3,10)

Prima di mettersi a salvare, esiliando dall’Egitto Israele, Dio svela se stesso, rivelando il suo piano a Mosè, a cui elegge come intermediario, portavoce dei suoi progetti e leader della liberazione che sta per realizzare: “Sono sceso per liberare Israele dalla mano dell’Egitto… Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo” (Es 3,8.10) Perché vuole tirare fuori Israele dalla schiavitù, Dio deve, prima, scegliersi un mediatore ed educarlo personalmente.

1.1 Imparare a diventare mediatore di Dio, un arduo e faticoso ammaestramento

Prima di iniziare una salvezza che si realizzerà come un gran esodo, Dio sottomette a chi dovrà dirigerla ad un lungo e faticoso addestramento. Il mediatore dovrà sperimentare in persona, prima, quanto a nome di Dio proporrà al suo popolo. Chi deve educare il popolo di Dio, prima dovrà lasciarsi educare da Dio.

Mosè, che appena nato si era salvato “dall’acque” di un grande fiume (Ex 2,10), è chiamato ad realizzare una salvezza dividendo il mare “perché gli israeliti entrassero nel mare all’asciutto” (Es 14,10). Figlio di ebrei (Es 2,6), adottato dalla figlia del faraone (Es 2,9-10), non potrà sopportare – proprio come poi il suo Dio (Es 3,7-8; 6,5-6) – le sofferenze subite dal suo popolo (Es 2,11): ammazzerà un egiziano (Es 2,12) e dovrà andare in esilio per salvare la propria vita (Es 2,14). Chi guiderà un giorno l’emancipazione del popolo (Es 14,4) si aveva salvato prima dandosi alla fuga (Es 2,15); per anni visse “emigrato in terra straniera” (Es 2,22), prima di condurre il suo popolo per un deserto durante quaranta anni (Dt 29,4): chi sarà chiamato a portare Israele ad incontrare Dio (Es 19,1-25), viveva tra stranieri quando Dio lo incontrò (Es 3,3-6). Saprà come opporsi a Dio (Es 4,1-14; 6,12-30) chi dovrà resistere le ribellioni del suo popolo (Es 14,11; 15,24; 16,2-3; 17,2-4). Conobbe l’incomprensione, il rifiuto, dei suoi, chi sarà testimone di un Dio misconosciuto e contestato (Es 16,3.8; 17,3).

Se arduo, crudele persino, fu l’addestramento a cui Dio sottomesse Mosè, più inumano divenne il suo finale. Chi favorì e guidò l’uscita dall’Egitto, chi scortò e accompagnò il suo popolo nel deserto, chi gli fornì di un corpo di leggi e di una coscienza di nazione, chi lo fece alleato di Dio, finirà i suoi giorni alle soglie della terra promessa: entrerà nel riposo dei padri (Dt 31,16) senza entrare in quello di Dio (Dt 31,2); gli sarà concesso vedere da lontano, senza nemmeno visitarla, quella terra tanto desiderata (Dt 32,55) che era la realizzazione della salvezza promessa. Chi era stato scelto da Dio per mediare la salvezza finì la sua vita sperimentando una salvezza ‘a metà’ : morì e fu sepolto “secondo l’ordine del Signore…, nel paese di Moab” (Dt 34,5.6). La sorte del chiamato a fare l’intermediario tra Dio e il suo popolo è restare a mezza strada, senza appartenere definitivamente a nessuno dei due.

1.2 Aver trovato Dio, origine e causa della mediazione

Mosè fu capace di sopportare quel faticoso addestramento perché aveva conosciuto Dio in persona. Il Dio che, sul monte Nebo, mostrò a Mosè “tutto il paese” e glielo fece vedere con i propri occhi (Dt 34,1.4), gli si era avvicinato in persona “nel Oreb, il monte del Signore” (Es 3,1.4). Mosè si imbatté con Dio nel roveto che ardeva senza consumarsi, un Dio che non si lasciò vedere ma si fece ascoltare, un Dio che svelò un piano di salvezza ma non il suo volto. Mosè intimò con Dio prima di mettersi a salvare il popolo; il mediatore divenne confidente prima che soffrisse la pedagogia divina; si lasciò educare da chi gli si era rivelato: Dio si diede a conoscere prima di dare a conoscere il suo progetto, prima svelò il suo nome, poi, il suo piano; e solo dopo, iniziò l’addestramento del suo mediatore. Sperimenta l’azione educativa di Dio chi ha fatto esperienza di Lui: Dio sottomette alla sua pedagogia a chi è ormai esperto in Lui.

Dio iniziò il suo lavoro educativo con Mosè chiamandolo, facendolo uscire da quanto l’ occupava (famiglia, professione, luoghi dove abitava) per caricarlo con un compito da lui mai immaginato: salvare il popolo che lui aveva abbandonato cercando di salvare se stesso. Per Mosè trovare un ‘nuovo’ Dio avvenne come un trovare una nuova missione nella vita: ebbe l’incontro con Dio nel momento in cui si incontrò con un piano di salvezza per Israele.

Il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” gli manifestò il suo nome (Es 3,6.14-16), identificandosi come liberatore di Israel, “Dio degli Ebrei” (Es 3,18), un Dio che è là per “fare uscire dall’Egitto gli israeliti” (Es 3,11): “Io sono venuto per vedere voi e ciò che vien fatto a voi in Egitto. E ho detto: Vi farò uscire dalla umiliazione dell’Egitto” (Es 3,17). Dio svela il suo “nuovo” nome svelando la sua volontà di liberare Israele: Lui è là per salvare.

Solo Mosè, che conosce il nome di Dio e il suo piano, si può presentare al faraone e al popolo come il suo rappresentante (Es 3,11-15). Per salvare il popolo di Dio si deve conoscere intimamente Dio, il suo ‘nome’ e il suo ‘programma’; e Dio sarà con Mosè sempre, e solo quando, Mosè si dia da fare per salvare il popolo (Es 3,12).

Opera così grande trova, chiaramente, opposizione. La prima, e peggior, resistenza nasce nel cuore del chiamato: Dio fa del tutto per disfarla, con tanta forza come tatto pedagogico. Se Mosè si dice incapace (Es 3,11: “Chi sono io per andare dal faraone?”), Dio si impegna a non lasciarlo solo (Es 3,12: “Io sarò con te”). Se questo Dio è uno sconosciuto (Es 3,15: “Ma mi diranno: come si chiama?. Io cosa risponderò loro?”), Mosè potrà dire il suo vero nome (Es 3,14: Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai agli israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi”). Se Mosè teme di non guadagnare la fiducia del popolo (Ex 4,1: “Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce”), Dio gli concederà poteri prodigiosi (Es 4,8: “Se non ti credono e non ascoltano la tua voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo”). Se, l’ultima resistenza, confessa Mosè di non saper parlare (Es 4,10: “Io non sono un buon parlatore; no lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare”), Dio, oltre ad promettergli di essere la sua bocca (Es 4,12), gli da un fratello (Es 4,14: “Non vi è forse il tuo fratello Aronne? Io so che lui sa parlar bene”). E il primo “Ora va’, io sarò la tua bocca” (Es 4,12) si converte in un “tu gli parlerai e le metterai sulla sua bocca le parole da dire…Parlerà lui al popolo per te” (Es 4,15-16).

Strano questo itinerario educativo che inizia con un Dio a cui ascoltare e finisce con il fratello a cui lasciar parlare! Quanta pazienza di educatore spreca con il suo inviato il Dio salvatore! Il risultato è evidente: avere Dio con se e avere a disposizione un fratello fanno di Mosè il mediatore che il popolo sofferente bisognava.

2. Il che: una obbligata partenza.
Imponendo un esodo, Dio educa il suo popolo e lo fa passare dalla servitù al servizio.

“Dice il Signore, il Dio di Israele:
Lascia partire il mio popolo,perché mi celebri una festa nel deserto!” (Es 5,1)

Israele visse l’uscita dall’Egitto come una liberazione poiché, schiavo, era sottomesso ad un ingiusto regime di lavori forzati. E capì che riuscire a cavarsene era opera di un Dio ‘nuovo’: solo un Dio così poteva mettersi a confronto con la potenza militare del faraone e vincere: l’emancipazione di un gruppo di schiavi fu salvezza divina, nascita alla libertà di Israele, il popolo che conobbe un Dio capace di farlo uscire dall’Egitto, “casa di servitù… con mano potente” (Es 13,3).

2.1 Il progetto iniziale di Dio, tre giornate di festa

Un nuovo Dio si svelava rendendo note le sue nuove – inaudite! – pretese: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…, conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano di Egitto” (Es 3,7-8). Questo Dio diede inizio al suo grande progetto di salvare Israele con una richiesta discreta, modesta direi; inviò a Mosè e Aronne a pregare il faraone di lasciar partire Israele “per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore nostro Dio” (Es 5,3); voleva liberare schiavi per essere da essi servito.

E, infatti, quanto chiesero nel suo Nome Mosè e Aronne era solo un tempo breve di svago, la sospensione transitoria del lavoro imposto. Rifiutandosi a concederlo, il faraone scatenò un lungo, e violento, processo di liberazione. Chi si nega a servire Dio opta per servirsi del prossimo; chi favorisce, invece, il libero servizio del Dio che ama la libertà, si sente impegnato nel processo di liberazione. Rigettare un servizio a Dio che si realizza nel riposo e la festa attenta contro il Dio che vuole essere festeggiato da uomini liberati. Chi crede nel Dio dell’esodo non si sentirà forzato, quando lavora, e, quando no, si saprà chiamato a celebrare la sua libertà ritrovata (Es 5,1-9; 13,2). Ricuperare il gusto per la festa e il riposo anche se brevi aiuta a ricordare Dio e fare proprio il suo progetto di salvezza. Nasce così una liturgia spazio di libertà e stimolo di rinnovati processi di liberazione.

Fin dall’inizio, Israele sapeva di non aver meritato la libertà ricevuta; conobbe però il motivo della sua liberazione: servire Dio (Es 5,1). Proprio perché il Dio dell’esodo amava la festa, liberò un popolo che lo festeggiasse. La libertà che Dio ci acquista non è, dunque, assoluta, ha un preciso obiettivo, il culto al Liberatore, la celebrazione festiva della libertà donata. In conseguenza, se servire Dio è solo possibile a uomini/donne liberi/e, liberarsi, essere e sentirsi liberi, è compito previo per fare festa. Il servizio di Dio è autentico, se nasce dalla libertà vissuta.

2.2 Le ‘ragioni’ di Dio: la sua paternità

Per legittimare il suo intervento a favore di un gruppo di schiavi, Dio deve prendere una decisione insolita: adotta Israele come primogenito e si presenta come il suo rappresentante legale. Divenuto ‘padre’ di un popolo, non può evitare vendicarsi de gli oppressori: “Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva!. Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito” (Es 4,22-23). Israele poté sentirsi sicuro della sua liberazione, perché Dio non poteva liberarsi delle sue responsabilità. Tutelato come figlio, si sapeva chiamato a essere libero.

Credere in Dio Padre alimentò in Israele la sua ansia di libertà; sapersi familiare di Dio lo portò a esigere lasciare la “casa della schiavitù”. Israele sempre pensò che la sua libertà era dono concesso, e non frutto di sforzi collettivi; nacque come popolo libero quando divenne credente; e riconobbe che indipendenza e sovranità nazionale restavano legate alla sua fedeltà a Dio, al servizio del suo Padre.

Perciò, sempre che vedeva che autonomia e libertà erano minacciate, si sentiva portato a confessare il suo peccato; credente, Israele sapeva che disobbedire Dio lo lasciava indifeso nelle mani dei suoi nemici. Chi è nato alla storia in un incontro con Dio, rimarrà nella storia se non perde Dio. La fede nel Dio dell’esodo obbligò Israele a affrontare la sua storia sempre con il suo Dio e Padre.

2.3 Un progetto malinteso e combattuto

Liberare Israele non risultò facile, nemmeno a Dio. La trovata opposizione gli obbligò a riaffermare ripetutamente e alle volte con violenza la sua volontà: si pronunciò continuamente a favore di una salvezza da pochi, se alcuni, desiderata.

La prima, e più ostinata, resistenza Dio la trovò nel potere politico; il faraone fece ricorso a maghi e profeti per mettere in pericolo, nell’inizio e nella fine, il progetto liberatore di Dio. E per riuscire, Dio lottò ‘corpo a corpo’. E risulta singolare che Dio stesso contava con l’opposizione, la aveva persino accresciuta indurendo il cuore del faraone (Es 4,21); anche se c’erano buone ragioni, ‘politiche’ (Es 1,10-11) ed economiche (Es 5, 12-19), l’ostilità era stata preavvisata, anzi voluta, da Dio (Ex 7,3-4; 9,12; 10,1.20.27; 11,10; 14,4.17): il suo piano era politicamente incorretto (liberare un gruppo di schiavi), un disastro economico (concedere giorni di svago a lavoratori costretti) e non consigliabile dal punto di vista religioso (celebrare un Dio non ancora (ri)conosciuto), Dio non si intimorì; era più interessato a ricevere culto che a mantenere schiavi: preferì il servizio nel deserto di uomini liberi (Es 3,12) a sentire il grido e vedere l’oppressione del suo popolo (Es 3,7.9).

Il Dio dei nostri padri (Es 3,6) è un Dio che, liberando schiavi, si fece conoscere, un Dio che, introducendo nella storia umana un gruppo di liberti, si offrì come loro Dio. Il nostro è un Dio che ha bisogno di uomini liberi per farli credenti fedeli. Avere esperienza del Dio dell’esodo esige, previamente, uomini che amino la libertà a loro concessa, uomini che non sopportino la privazione di libertà altrui: il Dio dell’esodo non si lascia festeggiare che da uomini liberi. Incontrerà questo Dio chi ‘esca’ dall’Egitto, “casa di schiavitù”, e inauguri una libertà celebrando questo Dio. Libertà avviata per servire Dio fu la prima tappa della pedagogia del Dio dell’esodo.

 

3. Il come: un inaspettato deserto.
Introducendolo nel deserto, Dio educa il suo popolo e lo fa passare dalla solitudine alla alleanza.

Nell’esodo, il progetto storico di salvezza biblica, il deserto è una tappa, imprevista ma necessaria, della pedagogia divina. Dio, che si mise a salvare facendo uscire dall’Egitto masse di schiavi promettendo loro libertà e una terra dove viverla (Es 3,8), li impose un lungo e arduo vagare per il deserto, terra di nessuno (Es 13,17), come cammino graduale verso la liberazione totale.

Che la cronaca di questo passo per il deserto occupi la maggior parte – e centrale – del Pentateuco (da Es 19,1 fino Nm 10,28) è prova della sua importanza dentro del programma educativo di Dio: Israel imparò che dove nessuno può sopravvivere, solo Dio si arrangia per salvare; dove tutto è avverso e nemico, solo Dio diventa compagno. Israel dovrà vagare per ben quaranta anni imparando a camminare accanto al Dio che lo liberò (Es 13, 21-22) fino ad incontrarsi con Dio alleato (Es 19-34).

3.1 Una decisione strategica di Dio

Quelli che uscirono dall’Egitto non entrarono subito, come pensavano ed era stato loro promesso, in un “paese bello e spazioso…, dove scorre latte e miele” (Es 3,8). Alla portentosa liberazione non seguì l’immediata donazione delle terre dove vivere in libertà; Israele cominciò a vivere libero in un inabitabile deserto (Es 13,17-18,20).

Entrare nel deserto non fu né capriccio di Dio né errore umano, ma una decisione di Dio ben pensata (Es 13,17-18), anche se imprevista e non voluta da Israele (Es 14,11-12). Nel programma di Dio, il deserto era luogo e tempo di salvezza, anche se, in realtà, rimandava in avanti la sua completezza. Vagare con rotta sconosciuta in terra inabitata fu tempo per la tentazione e la grazia, luogo di prova e di incontro con Dio.

Dio ricorse al deserto come opzione pedagogica; introdusse in esso un drappello di uomini non ancora abituati alla libertà e, dopo lunghi percorsi e continue contestazioni, fece uscire da esso un popolo, costituito nazione e suo fermo alleato. Senza il deserto, Israel né avrebbe giurato alleanza con il suo Dio né lo avrebbe accettato come compagno di cammino.

Dio, quando salva, impone sempre il deserto, se ritarda senza data fissa la promessa fatta, se lascia i suoi soli e indifesi davanti al nemico, se fa camminare in terra di nessuno con nessuno come amico. Chi lo dimentica o si opponga, perde l’opportunità di, ormai liberato, diventare credente e alleato di Dio.

3.2 Tempo – per Dio e per i suoi – di provare la propria fedeltà

Israele visse tanto tempo perduto nel deserto per aver messo alla prova Dio “già dieci volte e non hanno obbedito la sua [mia] voce” (Nm 13,22-23). L’episodio dei dodici esploratori spiega come Dio si vide obbligato a far morire nel deserto la generazione che fece uscire dall’Egitto mentre rompeva il mare e aspettare fino a quando i nati nel deserto diventassero adulti e migliori credenti.

Subito dopo sapere che la terra dove andavano era abitata, capirono che dovevano lottare, chissà se morire, per conquistarla; i liberati dall’Egitto si sentirono ingannati; mormorarono contro Dio che aveva promessa una terra gratis. Nel peccato ci sarà il castigo: poiché non vollero entrare in una terra che dovevano guadagnare con la forza, non usciranno dal deserto; ebbero paura di vedere la terra promessa perché abitata, non verranno che il deserto, terra inabitabile.

Nel frattempo, Dio si concede un tempo per prepararsi un popolo che si fidi di Lui e delle sue promesse e cammini secondo il suo volere. Mentre, Israele dovrà imparare che Dio, a dispetto di tutto, no lo abbandonerà: in forma di oscuro nuvolone (Es 13,21-22; 14,19-24; 33,9-11; Nm 11,25; 14,14) o come colonna di fuoco (Es 13,21-22; 19,18; 40,34-38; Nm 9,15-23; 10,11-12), marcerà alla loro testa, camminando con loro e mostrando il cammino. Di giorno, colonna di nube, di notte, colonna di fuoco, Dio prova la sua vicinanza e, nondimeno, il suo distacco: accompagna il suo popolo senza prepotenza, favorendo sempre la fede e lasciando spazi per la libertà. Israele, in conseguenza, dovrà decidere sempre, senza abdicare delle sue responsabilità e con il rischio di errare; si sentirà guidato da Dio, ma si saprà non costretto a seguirlo. Arduo fu il tempo del deserto, indispensabile per educarsi nella libertà.

Avere Dio all’avanguardia non risparmiò a Israele fatiche nel cammino, la paura di sbagliare e la propria responsabilità. E difatti, cadde nella tentazione di farsi un dio a misura, fabbricando un prezioso ed imponente animale, “un dio che cammini alla nostra testa” (Es 32,1.23); “scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno” (Sal 106,20). Che altro dio poteva desiderarsi un popolo stanco da tanto camminare? Ma un dio immaginato secondo le necessità del credente, un dio di cui si dispone a piacimento non é liberatore e diventa una pesante carica; come ironizzerà poi il profeta, il dio, “lavoro di artista e di mano di orafo”, non sa parlare e “bisogna portarlo perché non cammina” (Ger 10,5)

Educare il popolo che si aveva scelto come figlio costò tanto a Dio; il deserto fu per Lui il luogo della amarezza, della prova, delle provocazioni (Ex 17,1-17; Sal 81,8; 95,8) che lo resero “geloso” (Sal 78,58). Nel deserto Dio divenne più sensibile alle critiche di Israele, perché restava più vicino, perché lo aveva dissetato e sfamato, perché lo guidava di giorno e di notte. Per riuscire ad avere un popolo fedele Dio ebbe di soffrire tanto di insolenze e spropositi, fino al punto di pensare, addolorato, di sterminare quel popolo di cosi dura cervice (Es 32,2-10). Meno male che in quel giorno aveva accanto Mosè, il mediatore, che poggiandosi sull’onore del Dio disonorato e sulla sua fedeltà alle promesse lo convinse e “il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo” (Es 32,14)

 

3.3 Con un unico obiettivo, ricuperare il suo popolo

Come scoprirà Israele, dopo un lungo vagare per il deserto, il suo Liberatore aveva un piano ben preciso dall’inizio: il percorso che cominciò come un pellegrinaggio di tre giorni per offrire sacrifici (Es 5,3) finì con la ratifica di una alleanza perpetua (Es 24,8). Nel deserto Israele trovò un Dio che bramava di legarsi a lui con un patto legale e si obbligò ad osservare leggi liberamente assunte (Es 34,10-27). Diventare alleato di Dio fu l’ultima, definitiva, esperienza che visse il popolo che cammino durante quaranta anni nel deserto.

Nel Sinai Israele si volle alleato dal Dio, che lo aveva liberato dall’Egitto adottandolo come figlio primogenito (Es 4,22) e seppe che si doveva con totale esclusività ad un Dio amante geloso (Es 20,5; 34,14). Certo, la eccessiva predilezione farà sì che questo Dio geloso si converta in compagno difficile e intollerante, che reagirà con violenza e passione quando si senta tradito nel suo amore. Israele se ne rese conto che questo Dio gli era necessario per sopravvivere (Nm 14,40-45), che lo precedeva, combatteva per lui, che lo portava e sosteneva “come un padre porta il proprio figlio” (Dt 1,31), che non cessò di seguirlo e restò con lui “in questi quaranta anni e non gli mancò nulla” (Dt 2,7, 8,2). Ancora di più, mentre camminava con Lui, gomito a gomito, Israele capì che Dio voleva essere seguito e obbedito (Dt 13,5) e che allontanarsi da Lui – o solo dimenticarlo - sarebbe la sua perdizione (Dt 7,4; 8,14).

Così, soggiogato da questo Dio, Israele divenne alleato dal suo Liberatore e prese coscienza della propria singolarità di fronte agli altri popoli: “voi sarete per me la proprietà fra tutti genti” (Es 19,5): con nessuna altra nazione Dio si era comportato così. Israele, liberato dall’Egitto e libero dopo ardua pedagogia, diventò alla fine popolo eletto eletta, regno di sacerdote, nazione santa (Es 19,6) ; il lungo e penoso processo di liberazione – e lo sforzo educativo di Dio – era arrivato alla fine. Nel Sinai, liberi e amici, inizieranno insieme, Israele e Dio, l’ultimo viaggio con la volontà di Dio accettata (Es 19,8: “Quanto Dio ha detto, noi lo faremo!”). Il soggiorno nel deserto, anche se imprevisto e mai del tutto voluto, aveva fatto il miracolo di convertire un branco disorganizzato di liberti in un popolo che si sentiva eletto da Dio. Ecco il successo della pedagogia divina!

 

4. La meta: una terra propria per vivere in libertà.
Obbligando a conquistarla, Dio educa il suo popolo a ricevere il dono come compito.

“Ecco, Io vi ho posto il paese dinanzi;
entrate, prendete in possesso il paese che ho giurato di dare ai vostri padri” (Dt 1,8)

Uscire dall’Egitto sarebbe stato un fallimento chiaro e tondo se si fosse concluso in un soggiorno permanente nel deserto: senza una terra propria dove vivere come popolo libero, l’esodo no sarebbe stato vera salvezza; Canaan realizzava la promessa e dava concretezza alla salvezza.

La terra promessa, dunque, era parte integrante del progetto salvifico di Dio, la contropartita di Egitto; entrare nella terra dei cananei chiusi il ciclo degli interventi divini iniziati coll’uscita di Abramo dalla sua terra (Dt 26,5-9): a Canaan il popolo di Dio trovò, finalmente, un luogo dove abitare e uno spazio per il riposo.

4.1 Dono rimandato, ma splendido: una terra ‘buona’ e un ‘nuovo’ Dio

Tutti quanti uscirono dal deserto e entrarono nella fertile terra di Canaan toccarono – meglio dire pestarono – la loro salvezza. Israele sapeva che non era figlio, né signore naturale, di quelle terre che stava per prendere: si impadronì di “città grandi e belle che non aveva edificato, case piene di ogni bene che non aveva riempito, cisterne scavate non da lui, vigne e oliveti che non aveva piantato” (Dt 6,11) e confessò sempre che gli erano state promesse e concesse da Dio.

L’insediamento a Canaan no fu, solo, conseguenza di occupazione, per conquista militare o infiltrazione pacifica, ma soprattutto legittima appropriazione di quanto Dio gli aveva concesso. Il suo Dio non si era accontentato con dare libertà al popolo, gli donò una terra per garantire l’esercizio della liberta accordata. Dio permise Israele di stabilirsi nel paese che era suo possesso (Gs 22,19): aveva prima eletto un popolo come figlio, doveva adesso procurargli un luogo dove dimorare (Es 15,17); Israele, la nazione e la terra, era e restava l’eredità di Dio.

Con la terra donata Israele riceveva, in più, una nuova rivelazione di Dio. Imparò che il Dio Liberatore in Egitto, il Dio compagno e alleato nel deserto, era pure il Dio della terra: appartenere a questo Dio includeva “avere parte con il Signore” (Gs 22,25; cf. Sal 16,5). In conseguenza, nessuno in Israele era proprietario di una terra che era, in esclusiva, di Dio, presso di Lui tutti, al massimo, erano “forestieri e inquilini” (Lv 25,23). Le terre non erano state donate in proprietà, ma in prestito per loro sfruttamento; i confini dei lotti di terreno spartiti rimanevano intoccabili, poiché sanciti da Dio. Vivere fuori, “lontano dall’eredità del Signore” implica essere “lontano dal volto del Signore” (1 Sm 26,20); abitarla obbligava ad obbedire il Signore (Gr 2,7; 16,18): la dis-obbedienza si paga con l’esilio (Ez 36,5; Os 9,3). Nella comprensione di Canaan come eredità di Dio c’era implicita una nuova immagine di Dio: il Dio compagno di cammini, vagabondo assieme al suo popolo errante, diventa il Dio che dimora in una terra, di cui è padrone (Gs 22,19), in mezzo al suo popolo (Nm 35,34). Nella terra di Canaan Dio diventa un Dio sedentario appena il suo popolo si è ivi insediato.

E poiché la terra è stata donata, possederla è sempre grazia. Nella terra data non si vive come uno vorrebbe, ma come Dio, il suo Signore, desidera. La liberalità di Dio costrinse Israele a vivere in essa con generosità: quello che aveva ottenuto come dono immeritato non poteva sfruttarlo in modo sconsiderato. A Canaan Israele divenne, come Adamo nel Eden prima di peccare (Gn 1,29), luogo-tenente di Dio. Nella mente di Dio le leggi referenti al coltivo della terra avevano per finalità mantenere il popolo, da generazione in generazione, grato con Dio e rispettoso con la terra.

Così Dio sottometteva Israele alla pedagogia del dono: evitando che credesse di essere signore unico della terra, Dio lo educava a vivere dipendendo da Lui e mettendo a disposizione altrui quello che aveva ricevuto come donativo. Chi aveva avuto tutto da Dio, era obbligato a riservare qualcosa per Lui e il suo prossimo: un Dio che parte la sua eredità non consente piccoli possidenti. Le leggi delle primizie (Es 23,19; 34,26; Lv :9,23-24; 23,10), quelle delle decime, annuali e triennali (Es 22,28; Nm 18,21-22; Dt 14,22), quella del interruzione del coltivo della terra tutti i sette anni (Es 23,10-12) e, persino, il divieto di raccogliere quello che resta dopo spigolare le messe, o cogliere i racimoli (Lv 19,9-12; 23,22) non sono che corollari della fede di Israele in Dio unico proprietario della terra che abitava.

E poiché la terra era donazione di un Dio alleato non poteva essere che la miglior terra possibile, terra ‘buona’ (Es 3,8; Nm 14,7; Jue 18,9; Dt 1,25). Ottenuta senza fatica (Gs 24,13), Israele si entusiasma con essa perché Dio non lo ha deluso: è una terra che mana latte e miele (Nm 13,27; Dt 6,3; 11,9; 26,9-15; 27,3; Gr 11,5; 32,22). In netto contraste con la monotona aridità del deserto, la terra promessa ricorda il paradiso perduto: come in esso abbondano le acque (Dt 8,7-20; 11,10-15), prova della protezione divina. In più, a Canaan è Dio in persona che si occupa della pioggia periodica: una terra che beve acqua dal cielo è, senz’altro, la terra delle benedizioni di Dio. Israele conobbe, finalmente, la gioia de contare con Dio mentre sfruttava della sua terra.

4.2 Una libertà donata che obbliga a vivere in libertà

La salvezza da Dio concessa non è solo dono gratuito; è, soprattutto, programma da realizzare: al dono della libertà segue necessariamente la libertà come compito. Durante tutto il processo di liberazione Dio fece di tutto per il popolo, alle volte persino contro di lui; nella tappa finale, nell’insediamento a Canaan, niente sarà realizzato senza Israele_ nato alla libertà senza volerla quasi, dovrà restare in libertà per rimanere in vita.

Stabilirsi in terra nuova causò nuovi problemi. C’era il pericolo di assimilare forme culturali e religiose, più sviluppate e in apparenza più efficaci, adatte meglio alle nuove necessità. Per popoli agricoltori la terra coltivabile era la evidente mediazione con le divinità. Israele, invece, popolo nomade, prestò sentì la seduzione della religione cananea, la quale sembrava assicurare meglio la sussistenza in quelle terre.

L’insediamento a Canaan provocò pure cambi radicali nelle norme di comportamento sociale. Israel prese l’ordinamento giuridico dei popoli circondanti, senza rinunciare a basarlo nella volontà positiva di suo Dio. Perciò, il diritto israelita si caratterizzò per un forte senso morale, la proporzionalità tra trasgressione e castigo e una preoccupazione preferenziale per gli strati sociali più deboli. Credere in un Dio Liberatore fu la base delle libertà sociali: chi credeva di essere stato riscattato dalla schiavitù non poteva ritornare ad avere nuovi padroni (1 Sam 13,8-15; 15,10-30; 2 Sam 12,1-12; 1 Re 11,31-39; 21,17-24), non poteva disporre a perpetuità di schiavi (Es 21-23; Dt 15,12-18; Lv 25,39-43). Il Dio che aveva salvato un popolo liberandolo dalla servitù forzata aveva bisogno di uomini liberi per essere celebrato come Liberatore. Israele, che si era incontrato con Dio mentre usciva dalla casa della schiavitù non poteva mettere limiti alla libertà altrui: per ambedue, per Dio e per Israele, erano irrinunciabile la libertà.

4.3 Il riposo e la festa, meta della liberazione

Dopo aver conquistato la terra promessa, Israele trovò, finalmente, un luogo dove riposare e una ragione per la festa comune. Entrare nella terra fermò i piedi stanchi e alla fatica seguì il sollievo; Israele poté mangiare e bere “allegramente” (1 Re 4,20): la salvezza del Dio dell’esodo ebbe come traguardo, vera meta del ‘processo educativo’ , la concessione di una terra dove il riposo non venisse trascurato e l’ozio favorisse il culto e la gioia.

Avere una terra propria fece possibile il riposo. Nella terra donata si poteva vivere con tranquillità e calma, “ognuno sotto la propria vite e il proprio fico” (1 Re 5,5). Dio si occupava personalmente delle frontiere (Ez 36,5; Sal 123) e aveva assicurato un riposo definitivo a Israele (1 Re 8,56). Fermandosi Dio in mezzo al suo popolo, nel tempio di Gerusalemme, Israele si sentirà al sicuro di ritornare ad antiche servitù o nuove fatiche. Sarà Dio chi guardi e costruisca il suo popolo, le frontiere e le case: inutile fare la guardia fino all’aurora o andare tardi a riposare (Sal 127, 2). Israele superò la paura del futuro non perché sapesse di poter dominarlo ma perché era sicuro di non affrontarlo da solo. Chi entra nel luogo del risposo di Dio (Sal 95,11) si liberi dalle preoccupazioni e libero si dedica a andare secondo le vie del Signore. Persino il sonno, stato di riposo gratificante e assenza di apprensioni, si converte in dono – come il pane – per gli amici del Signore (Sal 127,3).

Riposare nella terra promessa era così importante il Dio liberatore di schiavi che ordinò a Israele osservare il sabato (Es 23,12; 2 Re 4,23; Is 1,13; Os 2,13): il popolo dovrà risposare per poter confessare che il lavoro non è imposizione violenta (Dt 5,14-15). Il Dio dell’esodo libera ai suoi fedeli dall’ansioso abuso del tempo, dall’angoscia per approfittare il tempo; avere spazi liberi per il ricordo di un passato vissuto con Dio, rinunciando alla produzione compulsiva e all’ansia di guadagno riconcilia il credente con se stesso e con il suo prossimo.

Obbligando il riposo e ordinando il culto, Dio ha educato il suo popolo alla gratuità: vivere da quanto si è ricevuto, senza lavorare tanto né affannarsi per avere di più è la meta della pedagogia del Dio dell’esodo, un Dio che pensò in una liberazione di tre giorni (Es 5,3) e, non riuscito, impose una redenzione definitiva e diede una terra per celebrarla.

II. Educare oggi, attuazione divina

“La pedagogia di Don Bosco – ha scritto un esperto – s’identifica con tutta la sua azione; e tutta l’azione con la sua personalità; e tutto Don Bosco è raccolto, in definitiva, nel suo cuore”. Il sistema educativo di Don Bosco – le sue opzioni e la metodologia - è, dunque, la rivelazione del suo più intimo essere e la concretizzazione del suo agire come sacerdote per i giovani. Come Dio con Israele, come Gesù con i suoi discepoli, azzarderei a dire, Don Bosco salvò la gioventù educandola.

L’educatore salva se, come Dio, osserva la miseria dei suoi, si lascia commuovere dalla loro sofferenza (Es 3,7-9a) e concepisce un preciso piano di interventi (Es 3,9b-4,17). Si identifica se stesso (Es 3,14-15: “Dirai agli israeliti: ‘Io-Sono’ mi ha inviato voi… il Signore, il Dio dei vostri padri… Questo è il mio nome; questo il titolo con cui sarò ricordato da generazioni in generazione”), identificando chi e come salvare ‘educando’ (es Es 3,16-18). Conoscendo – ha visto e sentito – il dolore di un popolo non può restare inattivo. All’origine dell’atto educativo divino c’è dunque la compassione di fronte ad una situazione di miseria: Dio si da a conoscere perché e quando da a conoscere la sua salvezza.

Chi deve educare il popolo di Dio, prima dovrà lasciarsi educare da Dio. Chi educa in nome di Dio deve conoscere bene Dio e il suoi piani: senza incontro personale – rivelazione divina – l’educazione del popolo non diventerà salvezza di Dio. Unico mediatore, l’educatore riceve un fratello come appoggio e sorpasso delle proprie deficienze: l’educazione salvatrice è sempre impegno comune

L’educatore salva imponendo rotture. All’origine dell’atto educativo di Dio ci fu il suo cuore compassionevole; si manifestò in persona solo dopo aver osservato lo stato miserabile del popolo e sentito le sue grida. È poco credibile vera educazione senza compassione.

Dio inizia la sua salvezza con una richiesta discreta, modesta direi, di liberazione parziale, tre giorni di celebrazioni per indurre al gusto per la festa e il riposo nel suo popolo, alla gioia del libero servizio. Simile progetto incontra resistenze e malintesi: per legittimarsi il Dio ‘educatore’ prende parte per chi soffre e si diventa suo padre. L’educazione divina è competenza di padri. compassionevole

Nella storia di Israele, tipo e figura della Chiesa, risulta evidente che nessuna situazione umana non può diventare motivo e mezzo di un incontro con Dio: una terra straniera, come Egitto, dove l’unica occupazione era il lavoro forzato, poté condurre alla scoperta del Dio liberatore; in un deserto, terra di nessuno, dove l’esistenza è permanentemente minacciata, si visse l’esperienza di un Dio compagno instancabile e fedele alleato; una nuova terra, fertile e abitata, dove il servizio a Dio e il riposo del uomo furono possibili, porto a incontrare un Dio Signore unico della terra e amico della festa. Israele non dové ‘uscire’ dalla sua storia – fuggire dalla realtà, anche se calamitosa - per trovare Dio; ma dové uscire continuamente da se stesso per accogliere Dio, quando – e come – gli si manifestava. Il Dio che vive per salvare non salva senza ‘fare uscire’, senza educare.

Il lavoro educativo richiede tempo e prove: uscire da una situazione non buona non significa entrare in una migliore; liberazione non è ancora libertà. Si vogliono percorsi imprevisti che, da buon educatore, Dio accompagna sempre fino a imporsi come fidato alleato. L’educando bisogna di tempi lunghi per farsi libero, appropriandosi della liberazione concessa.

Chi è stato salvato dalla schiavitù in terra straniera non può diventare favorire la schiavitù altrui in propria terra. Il beneducato si rende educatore, liberatore. La meta dell’educazione divina è il riposo festivo e la gratuità nel rapporto con gli altri.

Roma, 11 novembre 2007

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