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“Come un granellino di senape”
La Famiglia salesiana, il seme seminato da don Bosco Una rilettura ‘salesiana’ di Mt 13,31-32

“Dopo le Strenne tanto propositive ed impegnative degli ultimi tre anni, eccomi qui – ci ha scritto il Rettor Maggiore – a proporvene un’altra ancor più urgente, esigente e promettente. Essa ha a che vedere con la nostra identità e con la nostra missione. Da essa dipende in effetti una presenza più visibile nella Chiesa e nella società e un’azione più efficace nell’affrontare le grandi sfide del mondo oggi”.1 Il tema della strenna di questo anno ci invita a riscoprire quello che volle don Bosco: fondare una famiglia al servizio della gioventù. “Prendendo spunto dalla parabola adoperata da Gesù per spiegare il Regno dei cieli e il suo dinamismo”, il Rettor Maggiore si è azzardato a “dire che il seme seminato da Don Bosco è cresciuto fino a diventare un albero frondoso e robusto, vero dono di Dio alla Chiesa e al mondo. Infatti, la Famiglia Salesiana ha vissuto un’autentica primavera. Ai gruppi originari si sono uniti, sotto l'impulso dello Spirito Santo, altri gruppi che, con vocazioni specifiche, hanno arricchito la comunione e allargato la missione salesiana”.2 Ebbene, identificare nel seme di senape una immagine evangelica della Famiglia Salesiana è, direi, piuttosto audace, ma nondimeno tanto incoraggiante: è stato Gesù ad avvertire nel granello di senape una similarità con il regno di Dio, la sua grande – unica – vera passione, il motivo della sua vita e la causa della sua morte. Intravedendo nel grano di senape una rappresentazione della Famiglia Salesiana, don Chávez ha immaginato – è qui radica, direi, la sua audacia – la Famiglia Salesiana come una realizzazione storica del Regno di Dio, quello, cioè, che più a cuore aveva Gesù. Ci interessa, dunque, capire cosa voleva dire Gesù quando ha paragonato il regno di Dio con il chicco di senape, per essere in grado di intuire cosa potrà significare oggi per noi l’essere stati il granello di senape diventato rigoglioso albero. Nella Strenna il Rettor Maggiore non ha fornito una spiegazione alla parabola evangelica del senape e neppure ha svelato la ragione della sua scelta; non ha fatto altro che utilizzarla come icona biblica – immagine visuale – della Famiglia Salesiana. La mancanza di precise tracce, di cenni sicuri, del magistero ci lascia – è vero – più liberi nella ricerca di una rilettura salesiana della parabola, ma rende più azzardata la nostra proposta. 1. “Parlò loro di molte cose in parabole” (13,3) La parabola del granello di senapa è inserita in un largo discorso di Gesù, il terzo dei cinque che Matteo trasmette nel suo vangelo. Mt 13 si presenta come un’unità letteraria ben definita (13,1.53a): dopo i due capitoli in cui ha raccontato la contestazione e il conflitto di Gesù con il giudaismo coetaneo e prima che venga consumata la rottura, evidenziata nel sofferto rifiuto ‘a casa sua’ (13,53b-58), l’evangelista ha raggruppato in un unico discorso diverse parabole,3 sette (cfr. Mc 4,1-34),4 che trattano del regno dei cieli.5  Chi parla: un evangelizzatore provato Percorrendo la Galilea Gesù si è presentato come messia, in parole (5-7) e opere (8-11). La sua opera di evangelizzazione ha raccolto successi tra la gente ma ha suscitato pure una crescente opposizione tra i dirigenti. Finora aveva parlato loro con dei simili e immagini. Per prima volta fa un discorso in parabole (13,3.10.13.18.24.31.33.34.36.53), che l’evangelista ha collocato alla metà del suo macroracconto; questa disposizione prova dell’importanza che da Matteo al discorso per capire Gesù, il mistero della sua persona e la sorte del suo ministero. L’ intenzione del narratore è chiara: l’annuncio del regno dei cieli, che Gesù porta avanti da quando, lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare (4,13), ha provocato fede ma pure ha messo alla luce l’incredulità. È quanto Gesù ha esperimentato ormai; lui non ha fatto altro che seminare il vangelo del regno, che è stato totalmente rifiutato o accolto con diverso risultato. Con le parabole che adesso racconta, Gesù fa il punto sulla sua esperienza personale di evangelizzatore a Galilea – primo e basico livello – e , nell’intenzione di Matteo – secondo livello –, da consolazione ad una chiesa che, cinquanta anni circa dopo, corre il rischio di sentirsi disincantata per l’esito che la sua predicazione del vangelo sta ottenendo. Emerge quindi la figura di un Gesù cosciente del suo insuccesso personale come evangelizzatore, un Gesù cioè che cerca di trovare il motivo per spiegarsi, e spiegare, perché il suo operato non stia raccogliendo i frutti desiderati; e la ragione che da ai discepoli rende ancora più sconcertante l’insuccesso che incassa: parla in parabole “perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” (13,13). Chiede da quanti lo ascoltano una decisione, sempre la stessa (4,17: “convertitevi”), che, quando c’è, porta alla comprensione e, se manca, all’indurimento del cuore (13,10-15).  Su cosa parla: un regno di Dio vicino Il discorso delle parabole è un discorso sul regno dei cieli (13,24.31.33.44.45.47.52). Tutte le parabole – sette – hanno come tema la crescita inarrestabile del regno; due di esse vanno spiegate dallo stesso Gesù, un fatto alquanto insolito nella tradizione evangelica, ma che trova una buona ragione: Gesù, per ben due volte (13,10-17.34-35), si giustifica perché parla in parabole quando parla sulla natura del regno dei cieli. Già dalla disposizione delle parabole emerge una certa logica interna, attraverso cui si intravede le convinzioni del narratore; dalla sua esperienza come predicatore, Gesù, come “il padrone di casa che estrae del suo tesoro cose nuove e cose antiche” (13,52), parla dell’essenza dell’evangelizzazione, della sua inarrestabile crescita e delle sue inevitabili conseguenze. La prima parabola, il seminatore (13,3b-9), spiega quanto diversamente rispondono gli ascoltatori alla predicazione del vangelo e i perché: il seme non trova sempre un buon campo né la miglior accoglienza (13,18-23). La seconda, la zizzania (13,24-30), avverte che l’evangelista del regno non è l’unico a seminare il buon terreno – il nemico si è mosso mentre i buoni servi dormivano (13,25) – e stabilisce la prossima mietitura come il momento del giudizio e separazione: il bene e il male debbono convivere e i discepoli non disperare. La terza parabola, il granello di senapa (13,31-32), e la quarta, il lievito (13,33), vanno abbinate e scoprono una legge fondamentale dell’evangelizzazione, la sua magnifica e inarrestabile crescita. Si è passato così dall’atto dell’evangelizzare alla natura dell’evangelizzazione. La quinta, il tesoro (13,44) e la sesta, la perla (13,45-46), pure gemellate, mettono in risalto la gioia che produce la scoperta del regno, la quale fa sì che chi lo trova possa rifiutare tutto quanto n’ha pur di avere quello che ha ritrovato. La settima, la rete (13,47-50), conclude il discorso ricordando che i buoni dovranno convivere con i cattivi fino alla fine del mondo, quando ci sarà l’ inevitabile resa di conti.  A chi parla: un pubblico diviso per la capacità di capire Il gruppo di ascoltatori di Gesù è doppio, proprio come nel discorso sul monte, una folla numerosa, presso il mare (13,3.10.13.24.31.33.34) e i discepoli, a casa (13,36.51). Alla folla parla all’aperto (13,1-35), ma solo in parabole (Mt 13,1-3a.10b.13a.34); ai discepoli, aggiunge una chiara spiegazione (13,10a.18.36), in casa (13,36-52): la gente – ‘quelli’ la chiama Gesù con certo distacco: 13,11.13 – ascolta la parola sul regno; i discepoli – ‘voi’ 13,11,18.19 – sono introdotti alla conoscenza del regno (13,11.19.23.51). È significativo che siano stati i discepoli, stupiti dal fatto che Gesù parlasse alla folla solo in parabole (13,34), ad interrogare Gesù: “Perché parli loro in parabole?” (13,10). La risposta di Gesù non può essere più scioccante: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato…; per questo parlo loro in parabole, perché vedendo non vedono e pur udendo non odono e non comprendono” (13,11.13). E quanto aggiunge a modo di prova risulta ancora più sconcertante, persino ingiusto: tale comportamento – commenta Gesù – adempie la Scrittura (Is 6,9-10: “Voi udrete, ma non comprenderete; guarderete, ma non vedrete, perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi e io li risani”) Chi non riesce a ravvisare in Gesù i segreti del regno dei cieli aumenta la cecità di fronte al Regno di Dio. L’acceso al Regno o l’esclusione da esso si decidono nell’accoglienza o nel rifiuto di Gesù e del suo insegnamento; di fronte a Gesù non è possibile la neutralità né l’indifferenza, poiché è in gioco Dio, il suo regno. Dove c’è l’avvertimento emerge pure l’opportunità: diventare seguaci di Gesù ci porta a ‘capire’ i segreti del regno. Ma – e questo diventa ancora meno accettabile – “conoscere i misteri del regno dei cieli” viene concesso gratuitamente ai discepoli di Gesù. “a voi è dato…, ma a loro non è dato” (13,11). Quando Gesù concluda il suo discorso, i discepoli risponderanno di sì alla sua domanda: “avete capito tutte queste cose?” (13,51): sapranno le cose del regno, anche se proclamate in parabole, perché, essendo discepoli di Gesù, sarà concesso a loro. La convivenza col Maestro gli permette di spiegare loro le parabole, ma le capiranno perché gli è stata data la grazia di comprendere i segreti del Regno. Il discorso è un appello urgente a vivere con Gesù e diventare, mediante l’ascolto pubblico e le spiegazioni private, suoi discepoli: ma si riesce solo per grazia immeritata.  Come parla: con un linguaggio ‘oscuro’ Introducendo il discorso, Matteo dice che Gesù “parlò di molte cose in parabole” (13,3). La parabola, il racconto di un aneddoto, una narrazione allegorica, una similitudine sviluppata come cronaca, non è un modo di parlare inventato da Gesù, ma è stato da lui privilegiato, tanto da diventare caratteristica del suo insegnamento. Anzi, secondo gli fa dire Matteo, è il modo come Dio vuole si spieghino i misteri del regno (13,10-17.34-35, cfr. Is 6.9-10; Sal 78,2). Normalmente, la parabola, una narrazione tratta dalla natura o dalla vita quotidiana, presenta un fatto “che colpisce l’ascoltatore con la sua vivezza e originalità e lo lascia in quel minimo di dubbio riguardo al significato dell’immagine sufficiente a stimolare il pensiero”6 ed provocare all’azione. La parabola prende la vita quotidiana come segno di Dio; la esperienza della vita provata e condivisa se converte in manifestazione di Dio; come è la vita raccontata così è il comportamento di Dio. Però la parabola non rispecchia tanto la vita come è, anche se si presenta come fatti di vita, quanto come dovrebbe essere; chiama l’attenzione degli ascoltatori ma non trasmette informazioni, chiede piuttosto conversione. Le parabole che Gesù racconta, più che dei paragoni tratti dalla vita quotidiana per illustrare qualche insegnamento generico – non sono proverbi! – , sono dei racconti, la cui composizione e i cui termini richiamano il modo di pensare di Gesù, le sue convinzioni più ferme ed intime, la sua visione personale del mondo e, soprattutto, la sua fede personale in Dio. In concreto, il tema del discorso delle parabole in Mt 13 fa fronte ad una realtà molto dolorosa per giudei credenti, prima di tutto per Gesù stesso, poi, nondimeno, per i primi cristiani venuti dal giudaismo (Rm 9-11): non tutto Israele ha accettato Gesù, né come predicatore del regno dei cieli durante il suo ministero, né come Signore e Figlio di Dio, dopo la sua risurrezione. Il mistero rimane ancor’oggi. Il Gesù di Matteo cerca di dare una spiegazione in parabole a tutti, con un’ulteriore e più chiara istruzione, ai discepoli. 2. “… come un granello di senapa” (13,31) Un giorno, “il giorno delle parabole” (13,1), Gesù, uscito da casa (Mt 12,46-50), sedette in riva al mare. Seduto, in procinto di insegnare (5,1: sul monte), si mise al centro dell’attenzione della folla, tanto grande che Gesù dovette salire su una barca con i suoi discepoli (13,10). Gesù finisce la sua parte del discorso diretto alla folla, precisamente, con due brevi parabole (13,34): 31Un’altra parabola espose loro: ‘Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami’. 33Un’altra parabola disse loro: ‘Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti’. 34Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, 35perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. La parabola della senape7, che riprende il tema della semina (13,3.24), viene presentata da Matteo abbinata a quella del lievito;8 formano un dittico quasi, dotate di una struttura simmetrica, con delle riprese persino lessicali;9 devono perciò essere interpretate insieme. Narrano due attuazioni diverse, vero, ma corrispondenti a mansioni quotidiane di un uomo, l’agricoltore, e di una donna, la casalinga; ambedue presentano la crescita di qualcosa che, in principio, rimaneva nascosta, come immagine del regno dei cieli, cioè la granello di senape e la piccola quantità di impasto fermentato; l’uomo e la donna non sono, dunque, figure del regno, ma le sue azioni. La seconda parabola, del lievito, è più condensata; non rapporta allusione ad alcun testo biblico e manca in essa il momento descrittivo che esplicita il contrasto tra la piccolezza degli inizi e la grandezza del frutto, anche se sia implicito nella opposizione tra un minimo di lievito e la massa enorme. I due protagonisti, l’uomo e la donna, sono colti nelle loro attività feriali tipiche: la semina, la preparazione del pane. Si deve avvertire che le due attività, domestici ed comuni, vanno in sostegno della vita e della famiglia. La selezione del paragone non è gratuita. La senapa, sinapis nigra, è un erbaggio, non un vero albero; viene seminata in un orto (Lc 18,19), non in un campo. È esagerato affermare che un suo granello, che potrebbe arrivare ad 1 mm. di lunghezza, sia il più piccolo dei semi; l’espressione, nondimeno, è diventata proverbiale (in Mt 17,20 appare come immagine del potere della fede che smuove le montagne); iperbolico, pure, asserire che diventi una pianta, più grande degli altri legumi (13,22).10 L’idea che si vuol trasmettere è quella della piccolezza, l’irrilevanza, del seme rispetto alla pianta matura, che può raggiungere in sola stagione l’altezza di 3 o 4 metri, in cui gli uccelli nidificano11, un particolare piuttosto insolito;12 accanto all’effetto di grandezza affiora, quindi, quello dello sviluppo che lo rende capace di ospitare gli uccelli. Nella parabola non si afferma (Lc 13,19) ma si suppone una aspettativa escatologica, lungamente attesa, di Israele, secondo cui Israele finirebbe per diventare una grande regno e casa per i gentili (Ez 17,23.31; Dn 4,9.18). Il lievito, agente di fermentazione, non tralascia il contrasto tra una limitata quantità di lievito e la grande massa che viene lievitata; ma aggiunge una importante connotazione: il nascondimento del lievito che trasforma la pasta, la ingrandisce, la fa sollevare e aumentare di volume: il lievito diventa efficace, lentamente ma inarrestabilmente, solo se nascosto e mescolato. Tre misure di farina (Gn 18,6) corrisponderebbe a oltre 20 kilogrammi di farina, una dose di pane che basterebbe a sfamare più di 100 persone,13 una quantità eccessiva per il lavoro di una sola massaia. Alquanto bizzarra risulta l’elezione del lievito come immagine del regno, anche se qui si da per scontato che sia forza vitale positiva (Mt 16,6; 1 Cor 5,6-8; Gal 5,9). Di solito il lievito veniva visto come qualcosa di necessario ma per lo più impuro e motivo di corruzione: nel tempio soltanto può venir usato il pan senza lievito, durante la settimana pasquale il pane da mangiare è azzimo (Mc 8,15).14 Qui è, però, presente il concetto di nascondimento: alle folle Gesù parlava sul regno in parabole (13,10), velando i suoi misteri (13,13: “perché udendo non odino e non comprendano”), e lo paragonava a un seme sotterrato (13,31), a un lievito impastato (13,33), ad un tesoro seppellito (13,44).. Celato, il regno di Dio si impone e trasforma il mondo: chi attende qualcosa di spettacolare e clamoroso, resterà deluso: Dio, come gli è solito (Gv 5,17), lavora come il lievito fermentando dal di dentro, senza resa, senza sosta. Le due parabole, tanto simili da costituire un gemellaggio, riguardano, quindi, la vera natura del regno dei cieli, la sua forma di realizzarsi. Non toccano, però, il problema specifico delle diverse reazioni alla predicazione di Gesù, già trattato nella parabola del seminatore: offrono piuttosto informazione riguardo a come avviene Dio Re: quanto di solito capita con il seme di senapa e con il lievito, capita con Lui, è così come Dio diviene re. La piccolezza, l’impercettibilità, l’irrilevanza negli inizi possono alimentare sfiducia e dubbi sul vigore attuale e sugli effetti futuri. Ma lo straordinario risultato che si aspetta rende il rifiuto più misterioso. Le parabole vogliono confortare a chi ha accettato il vangelo e avvertire a chi lo rifiuta. Proprio per questo, l’accento è sul contrasto tra la piccolezza iniziale e la magnificenza finale. La crescita è menzionata soltanto incidentalmente (13,32). La parabola della senape si ispira in Ez 17,23, dove il profeta parla di un ramo tagliato, Israele, che diventa cedro imponente, e a Dn 4,9.18, dove in un sogno Nabucodonosor vede un grande albero, in cui gli uccelli del cielo, i popoli della terra, trovano riparo (cfr. Sal 104,12; Ez 31,6). In entrambe i casi, nel regno tutte le nazione potranno trovare protezione ed alloggio, sopravvivenza e focolare. La prospettiva dell’immagine mira non ad quanti si accolgono sotto l’albero, ma alla capacità stragrande di accogliere tutti. Nelle parabole traspare una certezza di fede profonda: nei modesti inizi di Gesù, molto più modesti di quelli di altri riformatori in Israele, si possono oramai riconoscere la magnificenza finale. C’è un altro aspetto nelle due parabole: anche se il contrasto chiaro è tra la piccolezza degli inizi e la grandezza dei risultati finale, resta sottinteso che il tutto non si realizza in un processo immediato; la crescita, la fermentazione richiede lunghi tempi durante i quali non si lascia vedere ma si richiede un prolungato ed invisibile periodo finché il granello/il lievito diventi maturo ed grande. Le due parabole hanno, dunque, un punto focale: l’ovvio contrasto tra un inizio insignificante nel presente e un risultato eccezionalmente grande in futuro mette in evidenza il confronto reale tra la provata scarsa efficacia della missione di Gesù e dei primi cristiani e la sicura e viva attesa del regno di Dio che verrà. Le parole di Gesù hanno dovuto sbalordire, sconvolgere persino, i suoi primi ascoltatori: un grande albero (Ez 17,2-10.2-24; 3,3-18; Dn 4,7-12.17-23), non un piccolo il seme di ortaggio, sarebbe stato un simile più appropriato per descrivere il regno di Dio, che si aspettava realizzasse la definitiva vittoria di Dio su i nemici di Israele. Il regno di Dio è ben diverso dai desideri che alimentano quelli che lo aspettano ed dalle immagine che se costruiscono; ma più decisivo ancora, è già qui, è agli inizi, ma ormai presente ed attivo nell’irrilevante e, in apparenza inefficace, lavoro apostolico di Gesù e dei primi predicatori. Non è il seme, né il lievito è segno del regno, dunque, ma quello che capita ad essi: la crescita, il fermento, velato ma incontenibile, è l’analogia del modo di agire di Dio. Mentre l’inizio è il tempo dell’annunzio (Gesù, comunità), il risultato è il regno di Dio. Nel seme e nel lievito c’è la forza che trasforma in un modo non visibile ma efficace: il regno di Dio è il frutto dell’annunzio del vangelo, sia Gesù siano i suoi discepoli i predicatori; la fine, splendente e al di là di tutte le aspettative, è ormai nell’inizio. Le parole di Gesù sono un pressante invito a non vedere solo con angoscia il momento presente, ma a intravedere già nel presente la forza inarrestabile della presenza divina: il paragone non spiega solo l’opposizione tra quello che c’è, un minuscolo e nascosto seme, e quello che avverrà, qualcosa di grande ed utile, l’albero e un pane; asserisce, piuttosto, che quanto ci sarà un giorno, è ormai vivo e vivificante, anche se nascosto e piccolo. La manifestazione della regalità di Dio è insignificante, se si considera al suo inizio sia nell’attività di Gesù, come in quella della comunità cristiana. Ma chi semina – Gesù, la Chiesa – vive con la speranza di proiettarsi verso le promesse di Dio testimoniate nelle scritture. L’evangelista intravede già i prodromi di quel compimento nell’apertura missionaria dei pagani (8,11; 28,19): nelle due fasi, in bocca di Gesù e nella predicazione matteana, la parabola è una professione di speranza; la fiducia in un finale splendente fa più ferma la pazienza da mantenere nel presente. A partire di Gesù il campo nasconde il granellino, e la massa si vede lievitata dal fermento, anche se non si vede ancora; Dio, anche se non lo si vede, è al lavoro; il suo regno è iniziato. 3. … il seme seminato da don Bosco “Avete capito queste cose?” (13,51) domandò Gesù ai suoi discepoli alla fine del discorso. E loro, un po’ spensieratamente, risposero di sì. Mi augurerei che questa fosse pure la vostra risposta, ma non mi azzardo a domandarvi. La parabola della senape trasmette l’insegnamento di Gesù sul regno e la sua esperienza di predicatore, la sua convinzione sulla presenza di Dio negli umili inizi della predicazione del regno, la fiducia del predicatore nella straordinaria potenza del vangelo. Gesù parla a tutti, ma – non lo si dimentichi – occulta a molti e rivela a pochi: “a voi è stato dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (13,11) Cosa dovremmo trarre noi, Famiglia Salesiana, dalla parabola scelta dal Rettor Maggiore per identificarci come famiglia di Don Bosco? Cosa ci è stato dato a riconoscere nella simile del granello di senapa? Nessuna parabola dice tutto quello che si potrebbe dire, e nemmeno quanto si aspetterebbe/desidererebbe ascoltare. La parabola della senape, come pure quella del lievito, non parla affatto sulla famiglia in genere, e tanto meno sulla famiglia salesiana in particolare, parla del regno di Dio, della sua tranquilla ma sorprendente forza vitale, della sua invisibile ma costante efficacia. Il regno avviene come energia occulta e ha dei risvolti dispari, da vivere con gratitudine per chi riesce ad ascoltare e capire il disegno di Dio e da avere come grave avvertenza per chi non gli è dato da comprendere. Paragonare la crescita meravigliosa del granello di senapa con la sorprendente crescita della Famiglia Salesiana ci permette, credo, di vedere la famiglia salesiana come  la realizzazione ‘salesiana’ del regno di Dio Vivere la fede personale e una vocazione comune è per noi la forma carismatica – il cammino ‘salesiano’, direi – di diventare “regno di Dio”. Non ad altro siamo chiamati come salesiani se non a costruire nella terra dei giovani il regno dei cieli: la nostra missione è quella di Gesù, non servire ai nostri propri disegni ma fare realtà il progetto di Dio. “Don Bosco sognò una missione giovanile e popolare dalle molteplici dimensioni e orientò le forze di quanti condividevano il suo progetto educativo e salvifico in un vasto movimento. La prodigiosa fecondità della Famiglia salesiana, significativo fenomeno della perenne vitalità della Chiesa, ne dà testimonianza” (CC 2). “La consapevolezza di una parentela spirituale e di una comune responsabilità apostolica ha prodotto rapporti e scambi fraterni fra i gruppi e una loro originale presenza nella Chiesa tra la gioventù particolarmente bisognosa” (CC 2): i numerosi gruppi che costituiscono oggi la Famiglia Salesiana “formano un unico organismo vitale” ed “intensificano, innanzi tutto, l'efficacia della testimonianza, [e] rendono più convincente l'annuncio del Vangelo, la penetrazione dello spirito delle beatitudini nel mondo, l'amore educativo verso i più bisognosi” (CC 3). Il salesiano, religioso o meno, fa presente il regno di Dio se, e quando, fa nascere e crescere la Famiglia Salesiana; anzi direi, come salesiano, non ha altro modo de realizzare tra i giovani il regno dei cieli.  che si attua nell’evangelizzazione dei giovani La parabola della senape è una raffigurazione di come cresce il regno di Dio una volta seminato il vangelo. Il RM ha visto in essa significata pure la crescita della FS. Ma il regno, e la Famiglia Salesiana, cresceranno solo se, come il granello di senape, vengono prima seminati. Poiché una volta seminato, il seme si sviluppa senza sosta, in modo a volte impercettibile ma sempre efficace. Il merito non è di chi semina, sia stato Gesù stesso, la sua chiesa, sia la Famiglia Salesiana, ma del seme – il vangelo – che porta in se una vita dirompente, una inarrestabile forza riproduttiva. Il progresso del seme, la vitalità della sua nascosta energia, è sempre inspiegabile ma rimane evidente: si sembra un piccolo granello, si raccolgono tutti i passeri del cielo nella pianta. “Tutta l'opera di don Bosco è nata da un semplice catechismo e l'evangelizzazione e la catechesi, che ne rappresentano l'ambito e l'approfondimento, restano per la Famiglia salesiana una dimensione fondamentale”. Se la Famiglia Salesiana fa suo “l'impegno della Chiesa contemporanea, la nuova evangelizzazione” (CM 28), non avrà fatto che ritornare ai suoi origini restando fedele alla “ricchezza profetica di don Bosco” (CM 4). Per riuscire, però, dovrà, come Gesù, come don Bosco, contare sulla forza travolgente del vangelo più che sulle nelle proprie risorse e capacità, sperare nella promesse di Dio più che nelle attese dei giovani. Elemento caratteristico della passione evangelizzatrice di don Bosco fu, infatti – come si ricordava don Chávez nel discorso alla chiusura del CG 26 – “ la convinzione del valore lievitante e della funzione trasformatrice che ha il vangelo”15. Se evangelizzare è oggi “l’urgenza principale della nostra missione” 16, la Famiglia Salesiana diventerà evangelizzatrice solo se, pur riconoscendo e soffrendo l’apparente inefficacia del suo operato, crede nella forza inarrestabile e sempre vincente del vangelo.  una evangelizzazione mantenuta, paziente, ma sicura di sé e dei risultati Il messaggio della parabola della senape, appunto, mette a fuoco il contrasto che emerge tra una realtà iniziale piccola ed inosservata e il suo sorprendente successo finale. Ma chi l’ha pronunciata sta sperimentando lo smacco per la non riuscita del suo ministero; contro l’evidenza, parla dalla sua ‘fede’ nel potere vitale del seme. Il Gesù evangelizzatore non riusciva a convertire tutti quelli che lo ascoltavano, riuscì invece a fare tra di essi parecchi nemici; cosciente del suo fallimento personale, era nondimeno sicuro dell’efficacia di Dio che opera il suo regno nel modo come operano la senape [e il lievito]. Questa convinzione di Gesù era concomitante con la sua esperienza apostolica, una esperienza che non si può pensare del tutto riuscita; proprio per ciò, rispecchia un profondo atteggiamento di fiducia: fede in quanto faceva e in come lo faceva era l’alimento della sua firme speranza. Di fronte alle scarse conversioni ottenute, è un canto di fede alla incoercibile espansione e potenza trasformante del regno di Dio. La Famiglia Salesiana può sentirsi identificata a ragione con il granello di senape: “a oltre cento anni dalla sua morte – ci scrisse don Vecchi – il fenomeno salesiano non finisce di meravigliare per l'estensione geografica e l'incremento numerico dei gruppi, che con specifiche originalità guardano a Don Bosco come al Padre di una grande famiglia spirituale” (CC Proemio). Ma essere cresciuti ‘miracolosamente’ non basta, se la crescita non continua: per realizzare l’immagine biblica, e il ‘sogno’ di Don Bosco, dobbiamo diventare non un’altra grande pianta, ma “il più grande degli… alberi, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami’”. Mentre ci siano giovani da accogliere ed ‘annidare’, la Famiglia Salesiana non deve fermarsi ne trovare riposo; mentre ci siano giovani da salvare, non si deve pensare che a crescere per dare vita, per dare la propria vita.  Capire ‘queste cose’ è dono di Dio Gesù finì il suo discorso delle parabole sul regno domandando ai suoi discepoli se avevano capito; loro risposero di sì (13,31). Prima, i discepoli avevano chiesto Gesù perché parlava alla gente solo in parabole (13,10). La ragione che addusse Gesù disturbò i discepoli molto di più di quanto aveva sconcertato il suo modo ermetico di parlare alla folla: “perché a loro non è dato conoscere i misteri del regno” (13,11). “La Famiglia Salesiana ha vissuto un’autentica primavera”, tanto da rappresentare ormai una realizzazione alquanto sorprendente del regno dei cieli nel mondo dei giovani. “Oggi è evidente agli occhi di tutti quanto è aumentata la Famiglia, si è moltiplicato il lavoro compiuto e quello che sogniamo; si è esteso senza limiti il campo di azione a beneficio di tanti giovani e adulti. Di questo siamo grati al Signore e prendiamo consapevolezza della nostra maggiore responsabilità”.17 Nata dalla grazia di Dio, la Famiglia Salesiana sarà grazia di Dio per i giovani se vive riconoscendo – e proprio perciò riconoscente - che nella sua esistenza Dio è presente attuando la sua salvezza “come il granellino di senape” (13,31). Vivere come Famiglia la comune vocazione salesiana è la prova di avere capito i misteri del regno e di poter capirci recettori del dono di Dio.

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