« Noi sappiamo che siamo passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i fratelli »
Carissimi Familiari e Confratelli,
Gentilissime Figlie di Maria Ausiliatrice,
Cari Cooperatori ed Exallievi,
Fratelli e Sorelle della Famiglia Salesiana,
Il Signore si è fatto presente ancora una
volta nella nostra comunità. Ci ha visitati prima con la malattia di don
Giovanni Fedrigotti, arrivata all’improvviso, senza agenda né calendario, con
la passione che lo ha unito più intensamente a quella del Signore Gesù, ed ora
con la sua morte.
Sono passati pochi giorni dalla celebrazione
del mistero dell’ Incarnazione, nella quale abbiamo ascoltato le parole di San
Paolo: “Ecco, è giunta la pienezza dei tempi. Dio ha mandato il suo Figlio nato
da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge,
e perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4); e Don Fedrigotti ha potuto
sperimentare pienamente il compimento di quanto ci è venuto a portare il
Cristo.
Abbiamo cominciato così l’anno nuovo 2004 con
questa manifestazione chiara, umanamente contundente, della volontà di Dio e,
come diceva Suor Lucia facendosi voce dei sentimenti e degli atteggiamenti
della mamma e dei familiari, “l’accogliamo con dolore ma con fede”.
Non era stato diverso l’atteggiamento di don
Giovanni che, sapendo delle numerosissime preghiere che si innalzavano al
Signore per la sua salute attraverso l’intercessione del Ven. Mons. Cimatti, e
vedendo nel contempo l’aggravarsi della sua condizione fisica, si esprimeva in
questi termini: “Sono sicuro che Dio non può non ascoltare e accogliere tutte
queste orazioni che in tante parti del mondo, nella Congregazione e nella
Famiglia, fanno per me. Egli saprà poi come versarle su di me”.
Per un uomo come lui, pieno di tanta vitalità
e ottimismo, questo abbandono alla volontà di Dio era la manifestazione filiale
della sua profonda fede.
Ricordo ancora la prima volta che andai a
trovarlo, quando erano stati compiuti gli accertamenti medici e la prognosi non
era affatto allettante. Alla mia domanda su come si sentisse, mi rispose: “Ho
predicato tanto sul mistero della croce, e ora che devo caricarmela non la
dovrei accettare? Il Signore mi darà la forza necessaria per portarla sino alla
fine”. Ed è stato così!
Certo, come distano i cieli dalla terra, così
sono i nostri pensieri nei confronti di quelli di Dio. Infatti don Fedrigotti,
dopo aver finito il suo brillante e generoso servizio di dodici anni come
Consigliere Regionale per l’Italia e il Medio Oriente, aveva ricevuto e accolto
la nuova obbedienza che gli era stata data, di andare nella nostra Università e
inserirsi come professore. Amando tanto Don Bosco e conoscendolo tanto bene, si
sentiva di poter dare un contributo nel campo della pedagogia e della
spiritualità salesiana. In un anno era riuscito a adempiere le condizioni
richieste per essere annoverato tra i professori, mentre allo stesso tempo
portava a termine la relazione su Mons. Cognata per poterla consegnare alla
Santa Sede, e si dava da fare in mille altre cose. Così era don Giovanni,
sempre sognatore, entusiasta, con progetti e iniziative da portare avanti. I
piani del Signore erano però ben diversi: più che la sua azione importava
adesso la sua passione, più che continuare a predicare sul tema della croce,
adesso doveva caricarla su di sé; e questi piani di Dio li seppe accogliere, e
mettere tutto in disparte pur di fare quello che il Signore voleva da lui: una
unione più intima e intensa attraverso la passione e la morte.
Questo è possibile quando si vive in pienezza
la nostra condizione di figli, secondo quello che dice l’autore della prima
lettera di Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere
chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (3,1).
È appunto questa nuova condizione umana che ci
ha portato l’Incarnazione di Dio tra noi, che ci rende capaci di amare i
fratelli e così “passare dalla morte alla vita”, come abbiamo sentito nella
prima lettura. Ecco la grandezza dell’amore! Ecco il suo primato: ci fa
assomigliare a Dio, che nella sua essenza è Amore, e ci fa vincere la morte,
perché “nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri
amici”.
In questa liturgia vogliamo dare voce a don
Fedrigotti e, con il salmista, cantare al nostro Dio, proclamare il suo amore e
la sua fedeltà per ogni generazione. Egli, che è il nostro creatore (“egli ci
ha fatti e noi siamo suoi”) e il nostro salvatore (noi siamo “suo gregge e
popolo del suo pascolo”), non delude la fede e la speranza di quanti si
affidano a Lui.
Quanti come Filippo trovano Gesù e lo seguono,
diventano discepoli ed evangelizzatori che possono raccontare agli altri:
“Abbiamo trovato colui che aspettavamo, colui del quale hanno scritto Mosé
nella Legge e i Profeti”, e vedere “il cielo aperto e gli angeli di Dio salire
e scendere sul Figlio dell’uomo”.
Ecco le “cose maggiori” che vedono coloro che,
come don Giovanni, hanno fatto di Gesù l’opzione fondamentale della propria
vita e si sono impegnati a vivere fino in fondo la bella e avvincente missione
di seguirlo ed imitarlo.
Ma vorrei lasciare spazio a quanti di noi
meglio hanno amato e conosciuto don Fedrigotti e possono rendere la propria
testimonianza per farci scoprire la sua identità più genuina, le sue motivazioni
più profonde, i suoi ideali più grandi.
Ecco le parole di don Antonio Martinelli:
“Caro Rettor Maggiore.
Esprimo le più vive condoglianze per la morte
di don Giovanni Fedrigotti. Manifesto la mia simpatia per la sua persona. L’ho
conosciuto nel lontano 1973, quando giunsi a Verona come ispettore, sconosciuto
ai tanti confratelli dell’Ispettoria.
Nacque una sincera amicizia. Ho spesso
parteggiato per lui, assumendo la sua … fraterna difesa … anche in momenti
difficili, istituzionalmente.
Ne apprezzai subito la lucida intelligenza e
il pensiero chiaro. Era ancora studente universitario, giovane sacerdote,
quando gli proposi la direzione della casa ispettoriale di Verona. Ubbidiente,
si mise a disposizione. Con semplicità fece alcune difficoltà, che ritenni
sufficienti per rimandare di un anno la chiamata in responsabilità. Quell’anno
gli servì per concludere gli studi e per prepararsi interiormente al nuovo
compito, che assunse serenamente e impegnandosi intensamente per … rianimare …
la comunità del don Bosco di Verona.
La parola facile e la voglia di esprimere
quanto andava leggendo (era un divoratore di libri, di volumi ponderosi, di
studi profondi), lo hanno reso un conferenziere e un predicatore richiesto. Il
suo ufficio era pieno di volumi di autori antichi e moderni. Leggeva con
passione.
Non ricordo di aver ricevuto mai un «no»,
quando si trattava di annunciare il Vangelo. Rendeva questo servizio con un
piglio “scanzonato”, ma allegro e amabile. Non si lasciava vincere dalle prime
reazioni che riceveva. Continuava nel suo progetto. Riusciva a cattivarsi la
simpatia e a creare facili relazioni.
Era attaccatissimo a don Bosco. Fedelissimo ai
rappresentanti di don Bosco. Difensore strenuo di quanto aveva scoperto
come «verità» salesiana, non
transigendo con nessuno su alcuni criteri fondamentali della vita «alla don
Bosco». Ammirava i salesiani che avevano speso tutta la vita per diffondere lo
spirito di don Bosco e il suo sistema. Si prodigava nell’aiutare quanti gli
chiedevano una mano.
Personalmente ho goduto per molti anni della
sua amicizia. Ho ricevuto da lui sincera stima.
Ricordando gli anni di Verona, continuava a
darmi del «lei» come gesto di deferenza e di rispetto, nonostante i ripetuti
inviti di passare al pronome «tu».
Abbiamo perduto un carissimo confratello.
Prego perché il Signore gli dia il premio meritato.
Affido all’Ausiliatrice la sua Famiglia. Don
Bosco lo tenga accanto a sé nella gloria del Risorto”.
Ecco le parole di don Giannantonio Bonato, suo
successore come Ispettore della Ispettoria di Verona.
“Fra i tanti elementi che si possono
cogliere dalla testimonianza di don Giovanni vorrei mettere in evidenza la sua
allegria. E’ vero che essa assumeva, talora, modi scomposti e sbarazzini (e ciò
era dovuto al suo temperamento) ma in realtà rispondeva a due precisi intenti.
Me lo rivelò lui stesso in una conversazione. Il primo risulta ovvio: creare
fraternità, riaccendere il clima di famiglia, celebrare quel gusto dello stare
insieme che è valore centrale della nostra tradizione. Il secondo tocca ancor
più il profondo: egli lo sentiva come un modo per ricondurre le difficoltà
entro l’orizzonte della fede, quando diventa sereno abbandono a Dio e perciò volontà di operare nonostante
tutto. Era quel colpo d’ala che rimetteva le cose al loro posto sottraendole
alla presa dell’immediato negativo per ricondurle al positivo di Dio, creduto,
e già accolto, per la fede. Non semplice cameratismo, dunque, ma precisa
volontà di far trionfare la speranza su ogni tentazione di scoraggiamento e di
pessimismo. E non certo espressione di superficialità, come dimostrava la
profondità del suo pensiero e talora la serietà delle sue decisioni. Non di
questo si trattava, ma di un bene che avvertiva essenziale; e quando doveva
constatare che in alcune comunità stesse venendo meno questa allegria semplice
e schietta, ne soffriva e si prodigava per ripristinarla. Più volte, durante il
suo ministero di ispettore e di regionale, ho riscontrato come fosse fedele a
tale impegno: quanto più densa era l’oscurità, tanto più si prodigava per
dissiparla scatenando l’allegria, quella che a me sembrava forzatura
inopportuna e che invece era sapienza, frutto d’un non facile controllo sugli
stati d’animo e di una abituale unione con Dio. Ovunque passava, lasciava
questa traccia: essa diventa ora memoria collettiva, dono prezioso che mette in
luce un aspetto importante della grazia di unità”.
O la testimonianza di don Umberto Benini:
“Nella vita di don Giovanni Fedrigotti, con
il quale sono vissuto insieme al “don Bosco” per molti anni, condividendo la
passione e la fatica educativa, ho scorto i segni di quella sapienza umana e di
quella Presenza operante dello Spirito che bene mi sembrano espressi in alcuni
detti del libro sacro dei Proverbi. Sono per me e penso per molti dei suoi
affezionati ex-allievi quasi un suo testamento spirituale non scritto su carte
ingiallite dal tempo ma inciso nel cuore con i gesti, i suggerimenti e le opere
di un raro ed appassionato educatore salesiano.
Il gioioso cammino esistenziale di don
Giovanni fa correre il pensiero anche all’immagine evangelica del granello di
senape che, cresciuto, è più grande di tutte le piante dell’orto, diventa un
albero tanto grande che gli uccelli vengono a fare il nido tra i suoi rami. In
lui, anche se più giovane di me, mentre si intrecciavano i nostri animati
dialoghi, scorgevo l’uomo saggio della Bibbia, che scriveva, attraverso i
giorni, pagine di storia sacra, perenne e viva, mai oscurata da vuote banalità.
Consigliere, incaricato della disciplina, Direttore, Ispettore, per tanto tempo
a servizio della Congregazione in questa terra veneta, di cui ha sempre serbato
in cuore simpatia e nostalgia, nonostante l’alto incarico di Regionale per
l’Italia ed il Medio Oriente, ha sempre conservato i tratti dell’amico semplice
e sereno, cantando la sua canzone d’ottimismo e speranza per i giovani, senza
perdere mai il colore dell’uomo serio ed impegnato, di religioso e sacerdote,
forte nella fede, come le rocce del suo Trentino.
Con Lui il “don Bosco” era più casa che
scuola. Lui stesso scriveva: “Non sarete anonimi volti velati dall’ombra che
confonde. Qui non dovrete venire timorosi di bisbigliar parole inascoltate. Qui
non potrete starvene furtivi guardando febbrilmente l’orologio, come fuggiaschi
cui soltanto preme fuggire ancora. Qui il vostro piede non potrà cessare
l’agile danza della vita ch’è il fascino vostro e il vostro sogno. Ma
volentieri si viene a questo luogo come si corre al fuoco della casa…”.
Con don Giovanni, i salesiani del don Bosco, sulla
scia dei grandi maestri del passato, hanno trascorso felici giorni di lavoro
nel desiderio che i giovani si aprissero agli orizzonti sempre più complessi
della realtà civile e politica in grande trasformazione. Gli ex-allievi e i
tanti amici che lo rimpiangono restano le radici forti e robuste di quella
grande quercia di dirittura morale, sapienza e fede che Lui è stato. Appare
certamente povero ed inaridito il cortile della nostra vita senza questa grande
pianta alla cui ombra abbiamo respirato l’aria pura dell’allegria, della
schiettezza, della cordialità.
Ha continuato, anche se lontano, ad amare e
stimare i suoi fratelli ed amici di lavoro che ricambiavano la sua cristallina
amicizia con il desiderio di ritrovarsi per stare bene insieme, “per muovere -
diceva Lui - passi ritmati da gridi di
gioia, così come fanno, per intimo slancio, i salvati; per drizzare insieme lo
sguardo all’unico Sole il cui raggio a sorpresa, crea e ricrea”.
Oggi, senza di Lui, ci sentiamo più poveri e
fragili. Alla luce, però, di quella fede, di cui è stato maestro fino
all’ultimo giorno della sua vita terrena, noi lo sentiamo vivo, fratello che ci
ha consegnato la casa solida, dalle sicure fondamenta che nessuna tempesta può
far tremare.
Commosso e turbato, a denti stretti e con fede
debole e messa alla prova Ti prego, caro don Giovanni, a nome di tutti quelli
che Ti hanno voluto bene, di continuare ad infonderci ottimismo e coraggio
“ per giungere,
insieme,
a quel porto, ove,
al riso dell’ultimo sole,
cala l’ultima vela stracciata
la
trepida nave,
scossa dal grande
vento di Dio”.
Tuttavia, la testimonianza più preziosa è
quella data da don Fedrigotti stesso, che in occasione del suo 30º anniversario
di ordinazione sacerdotale scrisse:
Che cosa ho imparato
in 30 anni di vita sacerdotale?
(Trento,09.04.1972 – Roma, 09.04.2002)
1. Che
dire messa ogni giorno, anche quando non c’è gusto, è come bere l’acqua: non
ha, forse, grandi sapori, ma mantiene la vita.
2. Che
il sacramento della Penitenza ci è dato perché, a forza di confessare e di
confessarci e di saperci perdonati, ci convinciamo – finalmente! – che il Signore ci ama e vuol farci scoprire
la fedeltà del Suo Amore.
3. Che
meditare la Sacra Scrittura per preparare una predica è una pro-vocazione
continua a vivere ciò che siamo chiamati a predicare. Che la meditazione della
Sacra Scrittura rivela prospettive sempre nuove, in risposta a tutte le
stagioni della vita e della storia. E’ lo Spirito che l’abita e l’aggiorna. Che
la verità annunciata – anche quando brucia – è sempre Parola di Consolazione e
di Speranza. Che l’annuncio della Parola, cominciato come uno sport
interessante e gratificante, si trasforma poco a poco in un servizio austero e
mortificante.
4. Che
Maria è davvero Madre dei sacerdoti e Aiuto dei cristiani e non abbandona chi
si affida continuamente a Lei.
5. Che
don Bosco non è un personaggio storico, ma un vero Padre biblico, che si è
preso cura di me fin dalla nascita (quando ho cominciato a portare il suo
nome), ha creato un’atmosfera intensamente salesiana nella mia casa, e si è
fatto potente intercessore, fino ad oggi.
6. Che
il modo più normale con cui il Signore ci ama è di darci una buona famiglia
cristiana, in cui la grazia matrimoniale continua a fiorire, e a dare frutti di
unità, di solidarietà fraterna, di gaudiosa reciprocità vocazionale.
7. Che
non il sapere - che mi vede oggi sepolto in una caterva di libri e che nutre
una parola brillante - ma l’amare – che mi trova ancora come un acerbo narciso
– che nutre una vita di dono, è quello che conta, alla fine.
8. Che
il senso profondo della mia indegnità si può accompagnare con la convinzione
serena, che al Signore piace servirsi di me, per fare del bene. Perché dovrebbe
dispiacersi – ragliando scompostamente – l’asina di Balaam, se al Signore piace
montare anche su di lei?
9. Che
le vie del Signore non sono le mie vie, e i suoi tempi e le sue stagioni sono
diverse dalle mie. E che bisogna attendere in silenzio il Suo Giorno.
10. Che,
per grazia di Dio, non ho mai sognato altro che d’essere prete, prete dei
giovani e del popolo di Dio, prete che, per primo, invoca e gusta la
misericordia, di cui si fa testimone in mezzo ai fratelli.
Prete di don Bosco, prete come don Bosco.
Certo, non gli somiglio molto.
Roma, 09.04.2002
Ecco, carissimi nel Signore, penso che questi
tratti di un profilo intensamente umano, profondamente spirituale e decisamente
salesiano di don Giovanni Fedrigotti possano essere la parola migliore con cui
Dio ci parla oggi, ridandoci fiducia e speranza, e chiamandoci al servizio
fedele, generoso e gioioso nella propria vocazione .
Don Pascual Chávez V.
Roma – Nostra Sig.ra
della Speranza – 5 gennaio 2004