SPIRITUALITÀ GIOVANILE SALESIANA
un dono dello Spirito alla Famiglia salesiana
per la vita e la speranza di tutti
PRESENTAZIONE
Queste pagine narrano una storia che ha riempito di vita e di speranza i nostri incontri in ogni parte del mondo. In Africa, in America, in Asia, in Europa, in Oceania la spiritualità giovanile salesiana è stata il punto di riferimento e la forza di convocazione per tanti giovani, FMA, SDB, genitori, laici collaboratori, membri della Famiglia salesiana. Di più, l'attenzione alla spiritualità ci ha dato l'occasione di lavorare insieme, in comunione, come una grande famiglia che non è solo "per" ma "con" i giovani e con tutti coloro che si riconoscono nel la passione educativa di don Bosco e di madre Mazzarello.
Lo strumento di lavoro che vi presentiamo è frutto della collaborazione tra i due Dicasteri per la P G. FMA-SDB e le ispettorie.
La sua origine risale alla fine del 1993 quando un gruppo di FMA, SDB e giovani si sono incontrati per condividere con noi l'esperienza e il cammino fatto fino ad ora. Dagli anni in cui si è iniziato a usare il termine "spiritualità giovanile salesiana " (1980 circa), il cammino si è fatto via via più profondo e condiviso. I giovani e gli educatori di allora sono diventati ormai adulti ricchi di una storia che li ha visti protagonisti entusiasti nei primi incontri, nelle feste-giovani, nelle celebrazioni MM'81 e DB'88 e in tante altre iniziative messe in atto per approfondire la comune spiritualità.
Come creare continuità con queste prime esperienze per consegnare ad altri giovani, educatrici, educatori, collaboratori laici, membri della Famiglia salesiana, un patrimonio ricco del cammino percorso in questi anni in ogni parte del mondo?
Da questa istanza, espressa da alcuni giovani, è nata l'idea di offrire lo strumento di lavoro che vi presentiamo.
Esso non è un testo in più da collocare in biblioteca o da riporre sugli scaffali dei nostri ambienti. E' frutto di un dialogo e di una ricerca che si è concretizzata attraverso alcune tappe di lavoro:
Si tratta dunque di uno strumento di lavoro che serve da quadro di riferimento globale. In esso l'esperienza carismatica di don Bosco e di madre Mazzarello viene riletta con le categorie teologiche di oggi. Offre le coordinate di fondo entro cui riscrivere il proprio testo ripensando all'esperienza e al cammino fatto in questi anni sulla spiritualità giovanile salesiana, alle domande dei giovani e del contesto socioculturale in cui si è inseriti.
Lo strumento di lavoro ha bisogno di essere tradotto, di acquisire "colore" locale. È questo il compito che affidiamo a ogni ispettoria o gruppo interispettoriale perché la spiritualità giovanile salesiana possa arricchirsi del "volto " concreto di ogni Continente.
Lo struniento di lavoro e rivolto in modo particolare a quanti FMA, SDB, giovani, collaboratori laici, membri della Famiglia salesiana hanno nell'ispettoria un compito di animazione a livello locale e ispettoriale. Con la loro mediazione il testo sarà presentato a tutti i membri delle Comunità Educanti, ritrovando le modalità più opportune per favorire la comprensione, l'approfondimento dei contenuti, il confronto con la prassi quotidiana, i criteri per la ritraduzione dello strumento di lavoro nella propria realtà.
Le domande di approfondimento, che sono state poste al termine di ogni parte,
possono offrire l'occasione per un confronto personale e in gruppo e,
soprattutto, per crescere nella consapevolezza di un dono che abbiamo tra le
mani e che siamo chiamati a consegnare ad altri ricco di esperienza e di storia.
Lo strumento di lavoro è ora affidato a ogni ispettoria come tesoro prezioso
da far fruttificare.
Attendiamo i diversi testi che scaturiranno dai vostri incontri per dare al
presente strumento il necessario supporto di "internazionalità ", per
arricchirlo del "colore " originale di ogni terra (anche nell'aspetto
grafico), per continuare a scrivere insieme, nel quotidiano, la profezia di don
Bosco e di madre Mazzarello.
Un grazie particolare a quanti hanno creduto nella validità dell'iniziativa e hanno donato tempo, intelligenza, energie per contribuire alla riflessione, alla stesura dei contenuti, all'impostazione grafica.
L'Ausiliatrice accompagni il nostro lavoro e la nostra disponibilità ad
essere come lei "volto e parola di Dio "per gli uomini, le donne, i
giovani e le giovani del nostro tempo e del futuro.
Sr. Georgina McPake | Don Luc Van Looy |
Consigliera Gen. per la PG.-FMA | Consigliere Gen. per la PG.-SDB |
6 Roma, 19 marzo 1996
L'abbiamo sperimentato tutti, tante volte. Abbiamo dentro capacità imprevedibili e un coraggio che sa fare cose grandi. Spesso, però, questo dono, destinato a rendere felici tante persone, resta assopito, come il fuoco sotto la cenere. Per scatenarlo in un'avventura che lascia il segno, ci vuole l'occasione buona.
La storia della "spiritualità giovanile salesiana" è una di queste
esperienze.
I Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice, molti giovani coinvolti nel
compito che don Bosco ci ha affidato, hanno sempre voluto bene a don Bosco e si
sono impegnati a ripeterlo con fedeltà. Un giorno, abbiamo scoperto che non
bastava più ripetere tranquillamente le cose che lui diceva e non era neppure
sufficiente continuare a fare i gesti che lui compiva. Il mondo, la cultura, le
persone stavano cambiando profondamente. Per parlare con gente che vive in una
situazione tanto diversa da quella tradizionale, era necessario scoprire strade
nuove. Non volevamo abbandonare quelle già percorse dai nostri amici; ma
neppure potevamo accontentarci di offrire le stesse cose.
La passione e la premura di chi sa che l'affamato non può aspettare, ci ha
spinto verso una frontiera di futuro. Così abbiamo incominciato a vivere la
"spiritualità giovanile salesiana". Abbiamo riscoperto un dono che ci
portavamo dentro, capace di risuonare come una bella notizia a chi cercava, con
trepidazione, vita e speranza.
Vogliamo raccontare questa storia, con il desiderio che s'allarghi il giro di
chi ha voglia di impegnarsi, come don Bosco e Madre Mazzarello, al servizio
della vita e della speranza nel nome di Gesù.
1. UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO
La nostra vita è piena d'interrogativi. Ciascuno ha i suoi. Ce ne sono di quelli che ci vengono dalla cultura in cui viviamo che ci vende un mucchio di desideri, per smerciare meglio i suoi prodotti. Alcuni sono tutti nostri, perché ci arrivano improvvisi da pezzi del nostro vissuto, dalle gioie e dalle angosce che ogni tanto l'attraversano. Altri, poi, li condividiamo in un giro d'amici che raccoglie ormai tantissima gente. A pensarci bene, sembrano frammenti d'umanità, domande che ci premono addosso per la semplice ragione che viviamo, speriamo, amiamo e, purtroppo, moriamo. Molti di questi interrogativi sono un grido di dolore, che brucia la nostra esistenza, per le troppe cose che avremmo il diritto di possedere e che invece ci sono rubate con violenza.
Nessuno ce la fa a resistere tranquillo, quando l'inquietudine gli martella dentro. Per questo cerchiamo, con trepidazione, risposte ai nostri interrogativi.
Don Bosco e Madre Mazzarello hanno speso tutta la loro vita per dare una risposta, seria e concreta, agli interrogativi dei ragazzi e delle ragazze del loro tempo. Forse erano diversi dai nostri, ma ne avevano di grossi anche loro.
E adesso? Possiamo continuare con le stesse loro risposte o dobbiamo cambiare
registro?
Le beatitudini: la risposta di Gesù ai nostri interrogativi
Di risposte agli interrogativi che salgono dalla nostra vita, ce ne sono tante in giro: troppe per scegliere con un po' di tranquillità. Che fare?
Il Vangelo suggerisce una risposta complessiva a tutti questi interrogativi. Li afferra tutti, con l'unica grande preoccupazione di farci scoprire che Dio è un Padre che ci ama, ci vuole pieni di felicità, confortati nella speranza, impegnati a vivere veramente da figli suoi. Ha una sua logica tanto precisa che può persino sembrare strana.
L'iniziativa la prende Dio. Ci chiede di sperimentarlo, crederci e scommetterci sopra. Ci assicura un amore che accoglie, che salva, che riempie di vita... ma dice, senza mezzi termini: la misura dell'amore è sacrificare la propria vita per coloro che si amano, senza incertezze e senza troppi "se" e "ma".
Da questa prospettiva, gli interrogativi che attraversano la nostra esistenza cambiano tono. Siamo trascinati verso quel livello profondo in cui ci scontriamo con il senso della nostra vita e con la ricerca di ragioni per sperare, oltre il dolore e la morte.
Chi sono io... se Dio mi ama senza neppure verificare se mi merito il suo
amore? Quando sono davvero "vivo"? La felicità che cerco
disperatamente... qual è? E Dio, quella persona strana che esige di essere
amato nell'amore con cui serviamo gli altri... chi è?
A tutte queste domande Gesù ha dato una risposta così sconvolgente che
verrebbe voglia di chiudere il libro, se non fossimo convinti che, prima di
raccontarle, Gesù ha vissuto lui per primo le "beatitudini".
"Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio,
perché Dio offre a loro il suo regno.
Beati quelli che sono nella tristezza,
perché Dio li consolerà.
Beati quelli che non sono violenti,
perché Dio darà loro la terra promessa.
Beati quelli che desiderano ardentemente ciò che Dio vuole
perché Dio esaudirà i loro desideri.
Beati quelli che hanno compassione degli altri,
perché Dio avrà compassione di loro.
Beati quelli che sono puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati quelli che diffondono la pace,
perché Dio li accoglierà come suoi figli.
Beati quelli che sono perseguitati
per aver fatto la volontà di Dio,
perché Dio darà loro il suo regno" (Mt 5,312).
Le beatitudini sono una strana parola sulla vita e sulla felicità. Seducono
con il fascino delle promesse e poi inchiodano in pretese dure e insolite.
Le beatitudini sono la vita di Gesù per la felicità e la libertà d'ogni uomo
che soffre, l'eco della sua potenza che fa nascere vita dove c'è morte per
annunciare chi è Dio.
Don Bosco e Madre Mazzarello, un dono di Dio per i giovani
E' possibile proporre le beatitudini a chi ha fame, si sente morire dentro, a chi cerca amici e solidarietà, a chi s'interroga sul senso della propria vita e si chiede se Dio ha qualcosa da dire alla sua voglia di felicità?
Se l'è chiesto un giorno anche un grande amico dei giovani.
Don Bosco, insoddisfatto dei modelli in circolazione, ha provato a scrivere il
Vangelo delle beatitudini per i giovani, soprattutto per i più poveri, quelli
cui nessuno di solito aveva tempo per pensare. Si è lasciato ispirare da un
grande santo, cui era tanto affezionato da servirsene per dare un nome ai suoi
figli: San Francesco di Sales.
Don Bosco ha trascinato nella sua passione un mucchio di gente. Prima fra tutti Maria Mazzarello. A Don Bosco e a Maria Mazzarello si sono uniti alcuni giovani e ragazze coraggiose che poi si sono chiamati "salesiani" e "figlie di Maria Ausiliatrice". Alla fine, n'è venuta fuori una storia bellissima, che ha riempito di vita e di speranza tantissima gente.
I giovani che arrivavano a Valdocco o a Mornese "si sentivano immediatamente avvolti da un clima di spontaneità, di gioia e di festa che coinvolgeva tutti". Era un'esplosione di vita cui non si poteva resistere a lungo. Questi giovani, poveri e spesso orfani almeno di speranza, scoprivano continuamente che don Bosco e Maria Mazzarello erano un dono del cuore di Dio: un modo concreto per raccontare a loro il vangelo delle beatitudini.
A Valdocco e a Mornese si respirava qualcosa che veniva da tanto lontano. La Scrittura è piena del racconto della tenerezza di Dio per il suo popolo. L'amore di Dio si manifestava soprattutto nei confronti dei più poveri e spuntava, forte e improvviso, nei momenti di particolare difficoltà. Don Bosco diceva: "Quantunque Dio ami tutti, come opera delle sue mani, tuttavia, nutre un affetto particolarissimo per i ragazzi e si delizia di loro". I ragazzi e le ragazze di Valdocco e di Mornese, nel volto concreto e quotidiano degli uomini e delle donne che avevano accettato di stare con don Bosco e con Madre Mazzarello, facevano esperienza che veramente Dio li amava molto ed erano importanti per lui.
Proprio com'è capitato tante volte nella storia della salvezza, nel clima di gioia, di amore e di accoglienza anche i giovani meno fortunati dal punto di vista spirituale si lasciarono coinvolgere da quell'esperienza speciale che sorprende e spinge a cambiare la vita. Conosciamo i nomi di alcuni di quei giovani: Michele Magone, Emma Ferrero, Francesco Besucco, Emilia Mosca.
L'allegria che regnava in Valdocco e a Mornese, era il frutto della passione
dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice per i giovani, per la loro
crescita nella gioia, nella libertà, nell'impegno.
Era espressione di un grande amore a Dio e alla vita.
Era soprattutto l'effetto di una valutazione positiva dell'esistenza in tutte le
sue manifestazioni, che nasceva dalla certezza della presenza di Dio.
Don Bosco e Madre Mazzarello sono stati un dono grande di Dio per la vita, la
gioia e la speranza di tutti. Lo sono stati in modo specialissimo per i giovani,
soprattutto per i più poveri.
Essi hanno operato nella Chiesa con intensa e rinnovata responsabilità, perché
hanno scoperto che Dio li ha chiamati a questo compito. Con la proclamazione
solenne della loro santità e dei frutti grandi del loro servizio educativo
(Domenico Savio, Laura Vicuña e tanti altri giovani "santi"), la
Chiesa ha riconosciuto la validità di questo dono e ha confermato l'intuizione
iniziale che lo Spirito Santo aveva visitato in modo carismatico la storia umana
in favore dei giovani.
Il Vangelo delle beatitudini... oggi
A questo punto della storia... ci siamo noi.
Non è facile continuare a scrivere il Vangelo delle beatitudini oggi, com'è
stato fatto all'inizio dell'avventura salesiana. I tempi nostri, infatti, sono
molto diversi da quelli in cui è iniziata la storia salesiana. Respiriamo un
clima nuovo e i sogni che illuminano la nostra esistenza sono diversi da quelli
che accendevano il cuore degli amici di don Bosco.
Don Bosco e Madre Mazzarello vivevano in una stagione culturale abbastanza
religiosa. Ai loro tempi, le persone religiose riconoscevano spontaneamente la
sacralità della vita e interpretavano la storia alla luce dei segni della
presenza di Dio. Oggi le cose non vanno più così, anche se non è facile dire
esattamente come stiano andando e soprattutto sono necessarie distinzioni
precise per tentare delle interpretazioni.
Da una parte, l'uomo è cresciuto in maturità e responsabilità, ha scoperto la
sua autonomia, sa che non può affidare ad altri compiti e impegni che lo
riguardano in prima persona. Dall'altra, però, qualcuno ha tentato di
assicurare meglio questa responsabilità personale, allontanando Dio dalla vita
e dalla storia dell'uomo. L'uomo è diventato molto presuntuoso. E' arrivato a
convincersi di poter fare a meno tranquillamente di Dio.
I giovani vivono oggi un'intensa domanda di vita e di felicità. Purtroppo però,
molti la vivono in modo disturbato. Ci sono cause strutturali: basta pensare
alle tante situazioni di povertà, di disagio, d'oppressione, di guerra, diffuse
nel mondo. Ci sono inoltre cause culturali: pensiamo ai modelli diffusi nella
nostra cultura occidentale, che tendono a far coincidere la felicità con la
quantità di cose possedute.
In questo clima, sotto lo stimolo della profezia del Concilio, la Famiglia
salesiana ha cercato le strade migliori per essere ancora dono di Dio per le
giovani e i giovani più poveri e abbandonati.
La lettera che il Papa ha scritto alla Famiglia salesiana nel centenario della
morte di don Bosco, ha sostenuto e incoraggiato la ricerca di un modo nuovo di
pensare alla vita cristiana. Diceva il Papa: don Bosco è maestro di spiritualità
giovanile perché ha saputo rendere vivo il Vangelo per i giovani, accogliendoli
nelle loro attese e nella loro voglia di vivere (Juvenum patris 5).
Un po' alla volta lo Spirito di Gesù ci ha aiutato a scoprire il compito
affascinante che ci affidava.
Non potevamo solo ripetere le stesse parole che aveva usato don Bosco. Davamo
l'impressione di parlare quasi un'altra lingua, tanto lontana da quella
comunemente parlata. Dovevamo dire il cuore di don Bosco e di Madre Mazzarello
dentro la vita e la cultura dei giovani d'oggi.
Nella Famiglia salesiana era chiara l'urgenza. Molti cercavano soluzioni: erano
come corridori ai blocchi di partenza, nell'attesa del via.
L'opportunità provvidenziale è venuta dalla celebrazione dei due centenari
MM 81, DB 88.
La Famiglia salesiana si è messa alla ricerca delle fonti e così sono state
riscoperte alcune dimensioni essenziali del carisma salesiano.
A don Bosco stava a cuore l'esperienza di un modo di vivere la vita cristiana
che fosse capace di unificare tutta l'esistenza. Basta ricordare un'affermazione
che citava spesso: "Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate
qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio" (1 Cor 10,31).
Le iniziative si sono moltiplicate. I primi timidi tentativi hanno suscitato
entusiasmo. Il progetto così ha preso consistenza.
I Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno incominciato a pensare,
lavorare, pregare "assieme": tra loro e con i giovani. Abbiamo
riscoperto che i giovani sono un grande dono per comprendere e realizzare meglio
anche la nostra vocazione di educatori. Il progetto di spiritualità è
diventato comune e condiviso: un pezzo importante della nostra vita da regalare
a tutti, un nuovo Vangelo delle beatitudini, per continuare a scrivere quello
che don Bosco e Madre Mazzarello avevano scritto per i giovani dei loro tempi e
che tanti Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice hanno scritto nella gioia
della loro esistenza donata per amore.
La spiritualità giovanile salesiana
Da oltre dieci anni, la Famiglia salesiana chiama l'esperienza spirituale,
nata da questa ricerca, con una formula che ha fatto presto il giro del mondo:
la "spiritualità giovanile salesiana".
Spiritualità è parola antica ed è carica di tanti significati.
Una costatazione è però fondamentale. La spiritualità non è appannaggio solo di alcuni fortunati, più impegnati di altri nella vita cristiana; nemmeno si riferisce solo allo stile d'esistenza di chi abbandona la vita quotidiana per ritirarsi a vivere nei monasteri o in qualche luogo deserto. Spiritualità è vivere la vita quotidiana nel mistero di Dio.
Gesù ci ha rivelato che Dio è al centro della nostra vita. Il suo Spirito
è all'opera e plasma di sé le persone, i gesti, le situazioni. Diventa uomo e
donna "spirituale" colui e colei che sanno decidersi per fare di
questa presenza, misteriosa e coinvolgente, il senso della propria vita, il
motivo di riferimento di ogni scelta, il fondamento della speranza.
Questa convinzione ci permette di riconoscere che don Bosco ci ha affidato un
progetto di spiritualità.
Incoraggiati dalle parole del Papa che ha riconosciuto in don Bosco un
"maestro di spiritualità giovanile", i suoi figli e le sue figlie
accolgono la sua proposta e la riscrivono dentro le nuove sensibilità
teologiche, antropologiche e educative. Nasce così un progetto di
"spiritualità giovanile salesiana". L'aggettivo "salesiana"
qualifica la proposta di don Bosco all'interno dei tanti modelli presenti nella
Chiesa. L'aggettivo "giovanile" ricorda che questo progetto si
riferisce ai giovani e assume uno stile molto giovanile anche quando è vissuto
da adulti, come sono i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice. Il
sostantivo "spiritualità" richiama qualcosa di serio e impegnativo:
la lunga tradizione scritta nella vita dei discepoli di Gesù. Vogliamo questa
spiritualità "salesiana" e "giovanile" per viverla più
intensamente, non certo per svuotarla di quelle esigenze di radicalità
evangelica in cui sono vissuti tanti cristiani, prima di noi.
I segni del passaggio dello Spirito
L'esperienza della "spiritualità giovanile salesiana", vissuta in questi anni, ha rappresentato un luogo privilegiato di maturazione vocazionale. Qualcuno ha riscoperto con maggiore intensità la sua vocazione religiosa; qualche altro ha avvertito la chiamata dello Spirito ad impegnare tutta la propria esistenza, in modo radicale, per la causa del regno di Dio; qualche altro ha avvertito la chiamata ad un servizio di laicato maturo nella Chiesa secondo lo stile di don Bosco.
Molti giovani e tantissime ragazze hanno maturato uno stile di servizio verso gli altri giovani e hanno dedicato tempo e risorse in una presenza educativa, capace di riattualizzare le intuizioni più belle della tradizione salesiana. La formula e, soprattutto, i contenuti hanno fatto il giro del mondo: animatore e animazione sono un modo di realizzare, con cuore educativo, l'impegno apostolico che don Bosco e Madre Mazzarello ci hanno affidato.
Non pochi giovani e ragazze vivono questa responsabilità a tempo pieno,
almeno per qualche anno della loro vita, in una delle tante forme di
"volontariato".
E' nato infine il MGS, come esperienza di convergenza attorno ai valori della
"spiritualità giovanile salesiana", di gruppi, associazioni e singoli
impegnati educativamente nei differenti ambiti (oratorio, scuola, parrocchia,
territorio).
Gli orizzonti si sono fatti ampi, il più piccolo dei semi è diventato pianta
grande che estende i suoi rami ovunque ci sia un educatore appassionato, come
Don Bosco e Madre Mazzarello, per la salvezza dei giovani.
Per l'approfondimento:
2. ALLA RADICE DELLA VITA CRISTIANA
Un buon progetto di spiritualità ha bisogno di radici. Cresce come albero
grande rigoglioso solo se affonda in un terreno ricco e sicuro.
Quali radici?
La risposta è facilissima: la presenza di Dio. Ci mettiamo in cammino verso di
lui perché lui, per primo, ci ha cercato e amato. La costatazione della
"presenza di Dio" si traduce immediatamente nell'invito a vivere alla
luce di questa presenza, riconoscendo che solo Dio è grande abbastanza da
colmare la nostra sete di felicità. Dio è amore e ci avvolge del suo amore.
Questo è pacifico... eppure tutto si complica: basta uno sguardo alla storia
della vita dei cristiani per constatarlo.
Nel nostro cammino verso Dio facciamo per forza i conti con la nostra vita
quotidiana. La dobbiamo fuggire e controllare, come un elemento che purtroppo ci
può sedurre con il suo fascino e con le sue preoccupazioni, fino ad
allontanarci da quello che conta di più o, invece, possiamo "amare"
questa nostra vita, convinti che la presenza di Dio ci dà pienamente questo
diritto?
La storia di Nicodemo
Nicodemo era un uomo colto e onesto, che sapeva troppe cose per lasciarsi sedurre da qualche battuta ad effetto. Un giorno avvicina Gesù per verificare se era veramente colui di cui si diceva tanto bene; e Gesù, invece di rispondere, dichiara che per capirlo bene bisogna "nascere di nuovo". Che cosa aveva Gesù di tanto sconvolgente da comunicare a Nicodemo? Leggiamo il racconto dal Vangelo di Giovanni.
"Nel gruppo dei farisei c'era un tale che si chiamava Nicodemo. Era uno
dei capi ebrei. Egli venne a cercare Gesù di notte, e gli disse: Rabbì,
sappiamo che sei un maestro mandato da Dio, perché nessuno può fare miracoli
come fai tu, se Dio non è con lui.
Gesù gli rispose: Credimi, nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce
nuovamente.
Nicodemo gli fa: Com'è possibile che un uomo nasca di nuovo quando è vecchio?
Non può certo entrare una seconda volta nel ventre di suo madre e rinascere.
Gesù rispose: Io ti assicuro che nessuno può entrare nel regno di Dio se non
nasce da acqua e Spirito" (Gv. 3, 15).
Di fronte alle difficoltà di Nicodemo, Gesù approfondisce la sua posizione.
Rilancia l'invito provocante a "rinascere". Ma spiega che la faccenda
non è di tipo fisico; riguarda la mentalità. Va cambiata la testa e il cuore.
Solo chi è disposto a cambiare modo di pensare, può comprendere il progetto di
Dio, che Gesù svela a Nicodemo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il
suo unico Figlio perché chi crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna. Dio
non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui" (Gv. 3, 1617).
La storia di Nicodemo è una di quelle da mettere all'inizio di ogni ricerca
sulla vita cristiana.
Come Nicodemo, noi vogliamo sapere da Gesù stesso chi è e fino a che punto
possiamo fidarci di lui. E' troppo seria la nostra vita per giocarla al seguito
del primo arrivato. Gesù non risponde come fa di solito chi vuole assicurarsi
dei fans. Pone una condizione pregiudiziale: "rinascere". Sembra dire:
solo chi cambia testa, può comprendere quello che sto per dire. Non dice: io
sono così e così. Rivela piuttosto chi è Dio e qual è il suo progetto su di
noi. Così, in uno stile originale, dice chi è lui e cosa è venuto a fare.
Il mondo che Dio ama siamo noi, la nostra vita, tutti gli uomini.
Dio ci ama, ama la nostra vita, ce la vuole restituire piena e abbondante (Gv.
10, 10). Per realizzare questo progetto, si è messo lui stesso in cerca
dell'uomo. Si è fatto dei nostri, solidale con noi pienamente e totalmente.
Questa è la grande, insperata "bella notizia" che Gesù rivela a
Nicodemo e, attraverso lui, a tutti noi.
Come ad un bivio
L'uomo spirituale riconosce, come Nicodemo, che solo Dio può spegnere la sua
fame di vita e di felicità. Corre verso di lui, come la cerva anela ai corsi
d'acqua (Salmo 42, 2). Si chiede: dove incontrare Dio, per scoprire la sua
presenza e sperimentare la gioia che essa dona?
La nostra vita quotidiana può diventare un peso gravoso, come uno zaino
eccessivamente carico di cianfrusaglie, se dobbiamo marciare sulla prima
strada... E se invece fosse proprio la nostra vita la strada sicura dove Dio
incontra l'uomo? Guai ad abbandonarla, per cercarne di migliori...
E' importante quello che Gesù dice a Nicodemo: tanto nuovo da dire a Nicodemo
che solo con un cuore e una testa nuova può capire quello che gli vuol dire.
Siamo come ad un bivio. Due strade si aprono sulla nostra esperienza. Una è
in salita. Parte della nostra vita quotidiana e, un tornante dopo l'altro, ci
porta verso Dio. L'altra assomiglia di più a quello che il Vangelo dice,
commentando il cammino di ritorno del popolo ebraico verso casa. Dio prende
l'iniziativa. Per rendere più facile la marcia degli esuli, ha spianato le
montagne e ha colmato le valli (cfr. Lc. 3). Ha inventato... le autostrade, per
farsi incontrare meglio dai suoi figli.
La prima strada va dall'uomo verso Dio. Nella seconda, è Dio che si mette in
cammino verso l'uomo: l'uomo può salire a Dio perché Dio è disceso verso di
lui.
L'uomo religioso ha sempre cercato di incontrare Dio e si è messo spesso
disperatamente alla sua ricerca. Gesù a Nicodemo dice quasi il contrario:
l'iniziativa non è dell'uomo; appartiene a Dio. Dio è colui che cerca l'uomo.
Una direzione di cammino: lo stile salesiano
Don Bosco e Madre Mazzarello, come tutti i grandi santi, avevano intuito questa situazione meravigliosa. Ne hanno parlato spesso, come si parla continuamente di un'esperienza che ha segnato l'esistenza. La formula che hanno utilizzato era ripetuta con frequenza nella Chiesa: "la presenza di Dio". Questo è il fatto, grande e insperato, che sta alla radice dell'esistenza cristiana: Dio è presente nella nostra vita, in ogni momento e in ogni avvenimento.
Don Bosco e Madre Mazzarello hanno vissuto personalmente "alla presenza di Dio"; le comunità di Valdocco e di Mornese lasciavano trasparire continuamente questa certezza e questa esperienza. Il loro modo di vivere ci aiuta moltissimo, anche se forse qualche espressione, troppo legata ai modelli culturali del loro tempo, potrebbe trarci in inganno.
Don Bosco e Madre Mazzarello non si staccavano dalla loro vita per incontrare
meglio il Signore. Per essi "vivere alla presenza di Dio" non voleva
dire fuggire dalla vita quotidiana.
La loro fu intuizione, scelta concreta.
Accoglievano tutta la realtà giovanile cercando con passione la salvezza totale
dei giovani.
Esprimevano la convinzione che Dio è presente anche nel cuore di coloro che
sembravano più toccati dal male.
Si univano a Dio nella gioia e nel lavoro.
L'ascesi del dovere o della bontà paziente era la loro penitenza.
La loro preghiera era scuola di amore di Dio: esprimeva la gioia dell'incontro
con una persona amata e invocazione fiduciosa di risposta nel bisogno.
In queste comunità non esisteva tensione tra lavoro e preghiera, tra Dio e
l'uomo, tra l' "a tu per tu" con Dio nella preghiera e la
consapevolezza della sua presenza nella vita. Il tessuto quotidiano era momento
privilegiato, luogo dell'incontro con Dio nell'adesione libera alla sua volontà.
La loro sfida fu la convinzione di poter incontrare Dio non solo nella preghiera
in chiesa, ma anche nel ritmo del lavoro e della vita quotidiana.
Il "Dio ti vede" che era scritto nei corridoi di Valdocco, e
"ogni punto d'ago un atto d'amor di Dio" che risuonava nei laboratori
di Mornese, era il linguaggio con cui Don Bosco e Madre Mazzarello dicevano
questa loro convinzione.
Alla radice di tutto: la scoperta dell'Incarnazione
Nella nostra storia, alla ricerca di una radice su cui fondare la "spiritualità giovanile salesiana", abbiamo meditato molto sul senso della nostra vita. L'abbiamo fatto, cercando di metterci dentro quello che conosciamo del mistero di Dio. Non basta di sicuro aver trovato una risposta furba a questo problema. Ne dobbiamo trovare una che vada d'accordo con il progetto di Dio: c'è di mezzo, infatti, il modello complessivo di vita spirituale.
Abbiamo trovato un'indicazione teologica, preziosa per allargare la riflessione fino agli abissi del progetto di Dio per la salvezza del mondo. Per scoprire come realizzare la vicinanza di Dio nella vita concreta, l'unico riferimento sicuro è Gesù di Nazareth. In lui, Dio si è incarnato, prendendo i tratti del nostro volto e facendo della nostra vita la sua carne.
La Famiglia salesiana, alla scuola delle straordinarie intuizioni pastorali
di don Bosco, è sempre stata particolarmente sensibile ai modelli teologici che
mettevano l'accento su quel modo di pensare Dio, che permetteva meglio di
scoprirlo vicino alla nostra vita concreta, pieno di amore accogliente per i
suoi figli, soprattutto i più piccoli e poveri. Certo, il volto di Dio è
sempre misterioso e nessuno può pretendere di descriverlo come egli è. Alcuni
modelli evidenziavano maggiormente i tratti della vicinanza di Dio; altri quelli
del suo splendore e della sua alterità. Don Bosco ci ha insegnato a preferire i
primi ai secondi. Così, quando la Chiesa del Concilio ha proposto
l'Incarnazione come criterio orientatore del profondo rinnovamento teologico e
pastorale della "Gaudium et spes", con gioia l'abbiamo subito fatto
nostro.
La "spiritualità giovanile salesiana" ha assunto le intuizioni di Don
Bosco, le ha meditate nell'aria fresca del Concilio e ha posto l'Incarnazione
alla radice della vita cristiana.
La vicinanza di Dio nella prospettiva dell'Incarnazione
Quando i credenti parlano dell'Incarnazione indicano prima di tutto un fatto preciso della vita di Gesù: Dio per salvare l'uomo ha deciso di farsi uno di noi ed è diventato uomo, con la collaborazione materna di Maria, in un segmento concreto di tempo e di spazio. In questo senso l'Incarnazione è solo un frammento della vita di Gesù, un'esperienza fra le tante. Non possiamo certamente isolarla dal resto della vita, come non possiamo eliminare le altre sue esperienze, solo perché questa ci piace un po' di più. L'Incarnazione, di conseguenza, porta alla Pasqua: Gesù si è fatto uno di noi, per offrire ad ogni uomo ed ad ogni donna il dono della salvezza di Dio.
I discepoli di Gesù, come documentano i Vangeli, quando parlano
dell'Incarnazione non pensano però solo a questo. Nella loro esperienza
l'Incarnazione è come un punto di prospettiva per vedere il tutto. E' un
frammento della vita di Gesù, così decisivo che serve per comprendere il senso
del tutto.
Un esempio può aiutare a comprendere meglio l'affermazione. Chi vuole
fotografare un panorama molto ampio, prima di scattare la sua fotografia
storica... deve decidere il punto in cui piazzare la sua macchina. La scelta è
decisiva: la prospettiva influenza non poco il risultato dell'operazione.
Per i discepoli di Gesù, l'Incarnazione è come il punto in cui piazzare la
macchina fotografica per comprendere tutta la vita del loro Maestro. L'hanno
fatto, con una consapevolezza crescente, perché così ha voluto Gesù. Basta
pensare alle polemiche infuocate di Gesù con i dottori della legge. Essi
giudicano il suo comportamento, utilizzando come criterio quello che conoscevano
di Dio. Gesù, invece, dichiara loro che l'unica cosa che potevano conoscere di
Dio era lui stesso: nella grazia dell'umanità che Maria gli ha regalato, lui ha
dato un volto a Dio. In Lui il Dio inaccessibile e misterioso, il Dio ineffabile
e trascendente si è fatto "volto", è diventato "parola" (cf.
DV 13). Nel volto e nella parola di Gesù di Nazaret possiamo parlare di Dio e
parlare a Dio. Possiamo cogliere chi è per noi e che cosa ci chiede.
Il volto di Dio, rivelato da Gesù
Il Vangelo manifesta, in tutte le sue pagine, il volto di un Dio, vicino
all'uomo, appassionato della sua vita, impegnato per la sua felicità. Gesù non
chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell'uomo. Afferma, senza mezzi
termini, che la gloria di Dio sta nella felicità dell'uomo. Il Dio
"geloso" di molte pagine dell'Antico Testamento si trasforma in Gesù
nel Dio "amore".
Leggiamo due pagine, tra le tante. La tradizione salesiana le ha spesso poste
come riferimento centrale nell'educazione alla fede. La prospettiva
dell'Incarnazione le rilancia come la grande rivelazione del Dio di Gesù, per
la nostra vita.
"Camminare a testa dritta"
Una pagina del Vangelo di Luca ci aiuta a scoprire chi è Dio per noi e da
che parte sta. Suggerisce, indirettamente, l'obiettivo di tutta la
"spiritualità giovanile salesiana".
"Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C'era
anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e
non poteva in nessun modo stare diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le
disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei
ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio" (Lc. 13, 1013). Di fronte
alle proteste del capo della sinagoga, arrabbiato perché Gesù aveva osato
guarire la donna nel giorno di sabato (andando contro la legge), Gesù risponde:
"Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere
liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato?" (Lc. 13, 16).
Non è l'unico testo che ha questo tono. Tutto il Vangelo è scritto così.
La voglia di far nascere vita dove ha riscontrato segni di morte, la fatica di
rimettere a testa dritta le persone che per differenti ragioni camminavano curve
e piegate in due, sembrano il filo rosso che lega tutta l'avventura di Gesù.
Nel nome di Dio, Gesù rimette "in piedi e a testa alta" chi vive
piegato sotto il peso delle sopraffazioni. Restituisce dignità a chi n'era
considerato privo. Ridà salute a chi è distrutto dalla malattia. Contrasta
fortemente ogni esperienza religiosa in cui Dio è utilizzato contro la vita e
la felicità dell'uomo. Egli è davvero il segno di chi è il Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe: "Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire
dall'Egitto, perché non siate più schiavi. Da quando ho spezzato il giogo del
dominio egiziano che pesava su di voi, potete camminare a testa alta" (Lev.
26, 13).
Gesù agisce così nel nome di Dio. Per questo, si getta in polemiche
infuocate con coloro che gli contestano il suo modo di agire: ci tiene a
dichiarare con i fatti da che parte sta Dio. Sembra quasi dire continuamente:
vedete questi segni di vita opposti ai fatti di morte... ecco questo è l'unico
modo per parlar bene di Dio.
Il buon pastore
Don Bosco ha parlato tante volte ai suoi giovani del "buon
pastore". Lo è stato lui stesso, come Gesù, segno concreto di chi è Dio
per noi.
Rileggiamo ancora una volta la pagina del Vangelo di Giovanni. "Allora Gesù disse loro di nuovo: "In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio" (Gv. 10, 719).
Con la figura del "buon pastore" Gesù disegna una specie di
autoritratto. Svela l'atteggiamento fondamentale di Dio verso i figli suoi e
sollecita tutti ad operare nello stesso stile.
La proposta è molto impegnativa. La mettiamo a riferimento centrale di una
spiritualità che vuole contemplare il volto di Dio per passare immediatamente
ai fatti concreti.
Siamo in buona compagnia. L'immagine del "buon pastore" ha
impressionato i cristiani di tutti i tempi. L'hanno dipinto nelle pareti delle
catacombe, per dare speranza a chi si trovava di fronte alla morte per fedeltà
al nome di Gesù. Raffigurato nelle grandi cattedrali, ricordava a tutti un
compito da continuare a realizzare. Anche Don Bosco è rimasto tanto colpito
dall'immagine del buon pastore, da dichiarare, a parole e con i fatti, "Ho
promesso a Dio che fino l'ultimo respiro sarebbe stato per i miei poveri
giovani".
Gesù, "buon pastore" è la grande rivelazione di chi è Dio per noi e
di chi siamo invitati ad essere, in fedeltà al suo progetto. Sacrifica la vita
per le sue pecore, fino all'ultimo respiro. L'amore non conosce mezze misure.
Dio nell'umanità di ogni uomo
L'Incarnazione rivela il volto di Dio. Basterebbe questa scoperta per colmare
tutti i nostri giorni di lode e di ringraziamento.
Ma non è solo questo. Essa spalanca anche uno squarcio d'azzurro sulla nostra
vita e sulla qualità di una vita cristiana impegnata. L'Incarnazione rivela
all'uomo la sua sconfinata grandezza, perché ci colloca nel mistero di Dio.
Noi, uomini e donne segnate dalla povertà della creatura, dal tradimento e dal
peccato, siamo diventati tanto nuovi, da offrire un volto a Dio e una parola
alla sua passione amorosa. La nostra umanità, infatti, è la stessa di Gesù.
Come in Gesù, Dio si fa volto e parola, così, in lui e per lui, continua in
ciascuno di noi a farsi volto e a diventare parola.
Esiste una solidarietà così profonda tra la nostra umanità, quella di Gesù
e Dio stesso, da poter dire, come ricorda il Vangelo: "Qualunque cosa
avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli l'avete fatta a me" (Mt
25,40).
L'umanità di Gesù, quella che Maria ha, giorno dopo giorno, costruito nel suo
corpo di mamma, dà un volto a Dio. La nostra umanità è come quella di Gesù.
Certamente, Gesù l'ha realizzata in un modo pieno e totale. Non è però una
realizzazione esclusiva, "riservata". Noi siamo concretamente quello
che solo Gesù è pienamente: anche se in modo povero e spesso molto disturbato,
siamo il luogo della presenza e della vicinanza di Dio.
La "spiritualità giovanile salesiana", fondata sull'Incarnazione, è una spiritualità che ama la vita: non ne ha paura né invita a fuggirla. Riconosce nell'umanità e nella vita il luogo in cui Dio si rende ancora presente e vicino a ciascuno di noi, come il Padre buono e accogliente che salva e riempie di vita. Contemplando quello che siamo per dono, ci troviamo impegnati fino in fondo verso la conversione all'autenticità e alla responsabilità.
Per l'approfondimento:
3. VIVERE IMMERSI NEL MISTERO
Colui che contempla stupito le cose meravigliose che Dio ha compiuto per lui in Gesù Cristo, ha una gran voglia di esprimere a Dio tutta la sua gratitudine nel vedersi tanto incredibilmente amato. Vive da uomo spirituale quando contempla il mistero in cui è immerso e risponde con uno stile rinnovato di vita.
Una domanda viene spontanea: cosa fare in concreto?
A questa domanda don Bosco rispondeva con una formula che riprendeva il modo
tradizionale di vedere le cose, anche se esprimeva intuizioni originali:
salvarsi l'anima.
La salvezza dell'anima era la preoccupazione d'ogni buon cristiano, la sua
risposta all'amore di Dio. "A che giova all'uomo guadagnare il mondo
intero, se poi perde la sua anima?": se lo chiedeva ogni cristiano di
fronte a tutte le scelte e decisioni importanti.
A noi certe espressioni piacciono poco. Le evitiamo con cura puntigliosa, ma purtroppo corriamo il rischio di dimenticare la sostanza. Siamo portati a mettere tutto sullo stesso piano, lasciando le preoccupazioni per l'anima... ai monaci, alle suore o, al massimo, alle persone anziane.
La "spiritualità giovanile salesiana", alla scuola della Chiesa del Concilio, non divide più tra anima e corpo, come se a Dio interessasse l'anima soltanto. Afferma però con forza che una cosa, più importante di tutte le altre, c'è e non la possiamo di sicuro ignorare, se vogliamo vivere nell'amore di Dio: la decisione di fare di Dio il Signore della nostra esistenza, fino a consegnare a lui tutto noi stessi.
Per sapere cosa significa tutto questo nel ritmo concreto della nostra vita,
dobbiamo penetrare più a fondo il mistero di Dio. In questo cammino, difficile
e urgente, ci sentiamo in compagnia con tutti i grandi credenti, anche se
utilizzeremo espressioni un po' diverse da quelle che hanno usato loro.
Vivere di fede
Don Bosco sentiva la presenza di Dio come quella di un Padre che circonda continuamente d'amore e di protezione i suoi figli. Per questo amava i giovani che incontrava e amava la sua e la loro vita. Nei giovani e nella vita quotidiana scopriva continuamente i segni della vicinanza di Dio. La sua esistenza è piena di espressioni che, interpretate bene, portano verso queste conclusioni.
"Salve, salvando salvati!" salutava Don Bosco. "Se vuoi farti buono aiuta i tuoi compagni" raccomandava a Domenico Savio, facendo, in qualche modo eco al grande annuncio di Gesù: "Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15, 8.11).
E Domenico Savio traduceva subito: "Noi qui facciamo consistere la
santità nello stare allegri".
L'Incarnazione ci ha fatto riscoprire la nostra vita quotidiana come luogo della
presenza di Dio. La costatazione è tanto decisiva che, un po' alla volta, la
"spiritualità giovanile salesiana" è diventata "la spiritualità
del quotidiano".
L'espressione è importante: è diventata un punto di riferimento comune e condiviso, capace di evocare un modello di vita cristiana. Dicendo "spiritualità del quotidiano", non solo riconosciamo, come ricordava don Bosco, che non c'è bisogno di staccarsi dalla vita ordinaria per cercare il Signore. C'è di più: lo troviamo proprio nella nostra vita quotidiana. Lì egli è presente per la nostra vita e la nostra felicità.
"Assumere con coerenza l'aspetto ordinario dell'esistenza; accettare le
sfide, gli interrogativi, le tensioni della crescita; cercare la ricomposizione
dei frammenti nell'unità realizzata dallo Spirito nel Battesimo; operare per il
superamento delle ambiguità presenti nell'esperienza giornaliera; fermentare
con l'amore ogni scelta: tutto ciò è il passaggio obbligato per scoprire e
amare il quotidiano come una realtà nuova in cui Dio opera da padre"
(CG23).
La presenza di Dio nella vita quotidiana
L'affermazione è molto bella e tanto impegnativa. Spesso, però, sembra più
facile scrivere cose del genere, che sperimentarle nel concreto. Come possiamo
dire veramente che Dio è presente, visto che non lo vediamo direttamente e
tante volte sembra persino assente dalla nostra storia, personale e collettiva?
Forse anche don Bosco avrà vissuto momenti di buio. Sopraffatto dall'angoscia e
dal dolore, qualche volta avrà gridato anche lui come l'uomo dei Salmi:
"Dio, dove sei?".
Non baste però dire che Dio è presente nella nostra vita. Dobbiamo cercare di
scoprire il significato concreto di questa presenza misteriosa.
Sappiamo che esistono diversi modelli di presenza. E' presente l'amico con
cui stiamo conversando. Ed è ugualmente presente il ricordo di una persona
cara, quando ci sentiamo travolti dalle difficoltà. La prima presenza è sul
piano fisico; la seconda è legata solo all'intenzionalità.
La presenza di Dio nella vita dell'uomo non è qualcosa da costatare e possedere
fisicamente. Non è però neppure una specie di ricordo nostalgico senza alcun
riferimento reale.
Si tratta di una presenza vera e consistente, anche se tutta speciale, diversa
dalla prima (la presenza fisica) e dalla seconda (il semplice ricordo).
Si realizza un rapporto misterioso tra ciò che si vede e si può costatare
facilmente e quello che non riusciamo a vedere con gli strumenti che possediamo.
La nostra vita può essere descritta da quello che si vede e si costata.
Abbiamo un nome, una famiglia, una storia. Abitiamo in un posto. Ci mettiamo a
lavorare, cerchiamo degli amici, amiamo e soffriamo. Tutto questo è molto
concreto e preciso.
C'è però qualcosa che ci sfugge, anche se è ugualmente vero e importante. Chi
contempla il mistero di Gesù, scopre che nella sua umanità che tutti vedevano,
Dio ha preso un volto ed è diventato parola. Essa si porta dentro un evento più
grande, la sua ragione d'essere più intima: Dio comunicato all'uomo in un gesto
d'impensabile gratuità. In lui e per mezzo suo anche in noi, un mistero più
grande è presente in quello che vediamo.
Quello che riconosciamo per Gesù, vale anche per noi, per la nostra umanità e
per la nostra vita. Lo ricorda continuamente il pensiero dell'Incarnazione.
Nella vita quotidiana quello che si vede e si manipola non è tutto. Non
possiamo far coincidere quello che vediamo con la verità delle cose e delle
nostre azioni. Quello che costatiamo, siamo e produciamo della nostra vita, è
veramente "nostro", frutto della fatica del nostro esistere. In esso
però è presente un evento più grande, che ci permette d'essere quello che
siamo.
A questo livello misterioso si colloca la presenza di Dio nell'umanità
dell'uomo. Per questo, la presenza di Dio non esclude l'incertezza della
ricerca, la sofferenza e il dolore, la tristezza della solitudine.
La fede: la vita quotidiana letta dalla parte del mistero
Per scoprire la presenza di Dio nella nostra vita e negli avvenimenti della
nostra storia, ci vuole uno sguardo penetrante, capace di leggere dentro la
realtà e arrivare fino al mistero che l'attraversa.
I cristiani chiamano "fede" questo sguardo penetrante che "toglie
il velo" che copre la nostra esistenza.
La fede è la qualità della vita di un cristiano. Sulla fede si distingue.
Per la luce della fede vive in questo mondo con il cuore al mistero che
l'attraversa.
Ci sono molti modi di pensare alla fede.
Uno ci piace in modo specialissimo perché è servito per definire il ritratto
di don Bosco: "Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli
era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni
dello Spirito Santo, viveva come se vedesse l'invisibile" (Cost. SDB 21).
Per comprendere cosa significa "vedere l'invisibile", dobbiamo andare
al documento da cui è ricavato questo modo di pensare alla fede.
Nella Lettera agli Ebrei è contenuta una bellissima definizione di fede:
"La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere
già le cose che non si vedono" (Eb. 11, 1).
Nel testo della Lettera agli Ebrei è raccontata poi l'avventura di personaggi
famosi che hanno vissuto la loro esistenza "come se vedessero
l'invisibile". Per essi, come per don Bosco, le situazioni sono quelle
normali della vita. In esse però ciò che non si vede e si spera viene
"conosciuto" e "posseduto" tanto da diventare la ragione e
il significato di quello che si vede e si costata.
Una lettura di fede richiede il coraggio di leggere la realtà, personale e
collettiva, con uno sguardo che si fa sempre più penetrante, fino a toccare le
soglie del mistero. Ed esige la capacità di ritornare sull'oggetto della fede
dal mistero, posseduto nella speranza, come la verità più intima d'ogni
avvenimento.
Il credente vive di fede quando s'immerge nel mistero della sua vita. Fa una
specie di tuffo nel mistero: si immerge nel profondo della sua vita per tornare
alla sua vita dopo aver contemplato il mistero.
L'amore è l'esperienza che ci fa capire questo processo, in modo concreto.
Quando due persone si vogliono bene veramente, l'esistenza di una è segnata
continuamente dal ricordo vivo dell'altra. Ciascuno fa le cose che deve fare e
non ha di sicuro bisogno di passare tutto il suo tempo vicino all'altra. Ma la
presenza reciproca è così forte, che cambia il senso della vita e
dell'impegno.
Questa è la fede per un cristiano: vivere la vita quotidiana riconoscendo il
mistero che la riempie.
Il mistero di Dio nel profondo degli avvenimenti
Viene spontaneo chiedersi: cos'è questo mistero? E' importante tentare di
rispondere... per non affermare una cosa tanto impegnativa restando nel vago.
Non possiamo pretendere spiegazioni sicure e perentorie, come se si trattasse di
spiegare il funzionamento di una macchina raffinata. La "spiritualità
giovanile salesiana" riconosce che Dio è più grande delle nostre parole:
brancoliamo nel buio, anche quando ci lasciamo illuminare dalla luce folgorante
di Dio.
Ci aiuta Gesù, lui che ha dato volto e parola al mistero di Dio.
Leggiamo una pagina del Vangelo, strana se ci lasciamo sedurre dalle nostre
logiche, illuminante se cerchiamo la sapienza di Dio.
"C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero" (Mt. 21, 33-44).
La storia finisce così. Ha però un seguito molto preciso, oltre il racconto
della parabola. Il figlio è stato ucciso e i suoi assassini pensavano di aver
vinto. Dio l'ha risuscitato dai morti. Ha vinto lui, proprio perché ha
accettato di dare la sua vita per amore. E ha vinto la vita: per tutti. In Gesù,
il chicco di frumento muore sotto terra per rinascere come spiga turgida, per la
gioia di tutti.
Questo è il modo con cui Dio affronta i problemi, quelli gravi che riguardano
la vita e la morte. Nel profondo degli avvenimenti, personali e collettivi, sta
la passione vittoriosa di Dio per la vita di tutti. Vive di fede chi sa
riconoscere "questo" mistero, tra le pieghe della vita quotidiana e
trasforma la sua esistenza concreta in un grido di speranza operosa, nel nome e
sulla potenza del Dio di Gesù.
La parola di Dio per penetrare il mistero
Per l'uomo credente vivere nella fede non significa accettare qualcosa, ma
accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare se stesso per lasciarsi abitare da
Dio. Lo strumento privilegiato per penetrare fino alle soglie del mistero, che
avvolge tutti i momenti della nostra esistenza, è la Parola di Dio.
Per noi Dio è Padre e come tale vuole comunicare con i suoi figli. Dio ci parla
soprattutto attraverso la S. Scrittura, la parola di Dio "scritta",
che, nella Chiesa, serve per interpretare le tante sue parole, diffuse nella
storia quotidiana.
L'invito e il suggerimento di stile ci vengono ancora una volta da don Bosco,
che in questo ha davvero anticipato molto i tempi: ha raccontato ai ragazzi la
Sacra Scrittura, li ha aiutati a comprenderla, meditarla, pregarla e ad attuarla
nella vita.
Come lui ci ha insegnato, meditiamo, preghiamo e attuiamo la Parola di Dio.
Ritroviamo nella storia della Salvezza le nostre origini; impariamo le parole
con cui rivolgerci a Dio. La leggiamo da soli, nel silenzio della nostra
interiorità. E la meditiamo nella Chiesa che ci aiuta ad interpretare bene il
testo che ci è affidato.
Attraverso la sua Parola, Dio suggerisce al nostro cuore le scelte, i gesti,
le parole e soprattutto i significati della nostra vita e della storia degli
uomini.
Ci uniamo al popolo di Dio che in tutti i tempi e in ogni parte della terra
innalza a Dio inni, suppliche e ringraziamenti.
Cerchiamo di rendere sempre più i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre
opere simili ai pensieri, alle parole, alle opere di Gesù Cristo.
La Chiesa: un popolo che condivide la causa di Gesù
Il cristiano vive di fede e fa della sua esistenza una concreta e gioiosa
sequela di Gesù. Non lo facciamo però come se fossimo degli eroi solitari,
impegnati in un'impresa disperata. Viviamo, crediamo, amiamo e speriamo in
compagnia con i nostri fratelli, vissuti prima di noi, con quelli contemporanei
di noi, e con quelli che vivranno la nostra stessa fede dopo di noi.
Siamo dentro un popolo che condivide la causa di Gesù: la Chiesa.
Alla scuola di don Bosco
Don Bosco ha amato tantissimo la Chiesa e ha speso tutta la sua esistenza al
suo servizio. Don Bosco lo diceva con le parole del suo tempo. Per lui, uomo del
secolo scorso, la Chiesa era soprattutto il Papa e i Vescovi. Per questo
insisteva tantissimo nel rispetto e nell'obbedienza. Il richiamo di don Bosco è
importante anche per noi, soprattutto in un tempo come il nostro, in cui le
tensioni sono frequenti e la presunzione sembra schiacciare la fedeltà.
Oggi abbiamo un dono prezioso per scoprire meglio la Chiesa: ci suggerisce
cosa significa "amare la Chiesa" e come vivere nella Chiesa. Questo
dono è il Concilio. Ci riporta al cuore di don Bosco con uno sguardo nuovo.
Ritroviamo uno stile rinnovato d'obbedienza e una visione più ampia e
universale di Chiesa.
La Chiesa del Concilio
Il Concilio ha disegnato il volto della Chiesa, mettendo in primo piano il
compito fondamentale che Gesù le ha affidato: il servizio al regno di Dio.
Il regno di Dio è la vita e la speranza per tutti gli uomini nel nome di Dio.
La Chiesa esiste per proclamare questa bella notizia e per consolidare
l'esperienza della sua realizzazione.
Continuiamo l'amore di don Bosco alla Chiesa, imparando ad amarla e a vivere
nella Chiesa quella passione per il regno di Dio, che ha riempito l'esistenza di
Gesù, di don Bosco e Madre Mazzarello e di tanti nostri amici.
Il Concilio, per condividere questo volto della Chiesa, ha invitato a
confrontarsi con la storia della prima comunità ecclesiale, così come la
racconta il libro degli "Atti degli Apostoli".
Coloro che si radunano, dopo la pasqua di Gesù, attorno agli Apostoli hanno la
consapevolezza di formare una comunità di persone impegnate a portare avanti la
causa del loro Maestro. Per questo confessano che Gesù è il Signore
nell'impegno di realizzare "un cuore solo ed un'anima sola" e di
"avere tutto in comune" affinché non ci sia più "nessun
bisognoso" (Atti, 2, 4245; 4, 3235).
Questa comunità si ritrova a celebrare nella "frazione del pane" la
progressiva realizzazione del trionfo della Vita sulla morte, nel nome di Gesù
(Atti 2, 42). Nell'Eucaristia essa rende grazie al Dio vivente per la pasqua di
Gesù già compiuta e per quella che quotidianamente è costruita, nell'attesa
della pasqua definitiva del futuro, quando "non ci sarà più la
morte" (Ap 21, 4).
Attorno alla causa di Gesù nasce l'unità nella comunità. Ma trova ragione,
nello stesso tempo, la diversità di vedute e di azioni.
I discepoli di Gesù hanno imparato, infatti, da Gesù stesso a cercare l'unità
e la comunione, accogliendo e rispettando la diversità.
Un racconto lo documenta in modo molto simpatico. "Giovanni gli disse: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri". Ma Gesù disse: "Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi. Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa" (Mc. 9, 38-41).
I discepoli ragionavano come alcuni cristiani di oggi. Erano un po' gelosi e
avrebbero voluto fare loro e solo loro tutto il bene possibile. Sembrava quasi
che cercassero più l'appartenenza ad uno stesso gruppo (il loro) della gioia di
vedere risolti dei problemi urgenti. Nella loro mentalità, l'unità diventa
facilmente sinonimo d'uniformità. Gesù mette al centro un'unità più
impegnativa: quella che riguarda il servizio alla vita e la lotta contro la
morte. Su quest'esigenza non si scherza e non si può transigere. Sul resto, la
diversità è una conseguenza della necessità di servire meglio la vita,
giocando in questo compito le proprie sensibilità, le proprie esperienze e
soprattutto le ragioni diverse di morte contro cui reagire in modo differente.
Amiamo e costruiamo la Chiesa
Questa è la Chiesa che vogliamo servire, amare e costruire: un popolo che
condivide fino in fondo la causa di Gesù e s'impegna a realizzarla come figli
adulti dello stesso padre e come fratelli che sanno accogliersi ed amarsi in una
comunione che va oltre le differenze di razza, cultura, organizzazione sociale.
In quest'unità di fede e d'impegno scopriamo la dolce compagnia dei
"testimoni" della resurrezione di Gesù. C'è Maria, la prima tra i
credenti e la più perfetta discepola di Gesù. Ci sono i Santi, che manifestano
la presenza di Dio e il suo volto. In loro Dio continua a parlarci. Ci affidiamo
a loro cercando nella loro vita l'esempio, nella loro intercessione l'aiuto,
certi di partecipare con loro, un giorno, alla grande festa della vita.
Ci sono i nostri amici, con cui viviamo ogni giorno l'avventura della fede e con
cui condividiamo la stessa passione per il regno di Dio, con cui lavoriamo, ci
confrontiamo, elaboriamo progetti e cerchiamo strategie nuove per servire la
vita e la speranza.
Ci sono persino tante altre persone, che apparentemente non hanno nulla da
condividere con la Chiesa... se non la cosa più grande: la passione per la
vita, la giustizia e la solidarietà. Li sentiamo nostri amici, anche se
percorrono strade lontane dalle nostre.
Questa compagnia di amici impegnati ci aiuta anche a scoprire chi siamo e come
possiamo rispondere a Dio che ci chiama. Sono frammenti di parole che diventano
convincenti perché hanno il volto concreto di tanti amici, conosciuti o
sconosciuti.
I sacramenti della Chiesa
L'azione di salvezza di Dio nella nostra vita si realizza in tanti modi. Un
padre che ama e vuole la vita e la felicità dei suoi figli, non ha certamente
bisogno di chiedere consigli sul modo di agire.
Abbiamo scoperto con gioia che la vita quotidiana è il luogo della presenza di
Dio. Questo significa riconoscere che la nostra vita è uno dei modi attraverso
cui Dio si fa vicino a noi per salvarci. Questo modello di presenza non è però
l'unico.
La tradizione cristiana ricorda altri modi, particolarmente solenni ed efficaci, della presenza di Dio per la nostra salvezza. Sono tanto speciali che di solito, quando i cristiani parlano di "sacramenti" della presenza di Dio, pensano soprattutto ad essi.
Sono la Parola "scritta" di Dio, la Chiesa come luogo di una
comunione oltre "la carne e il sangue" (come dice una bella pagina del
Vangelo di Giovanni: Gv. 1, 13) e soprattutto i sette sacramenti.
Abbiamo già meditato sull'importanza della Parola di Dio e della comunione
ecclesiale. Riflettiamo un poco sui sacramenti. Il punto in cui collochiamo è
ancora quello che ci è servito per comprendere il significato della Parola di
Dio e della Chiesa: la vita quotidiana.
Da questo punto di vista, la "spiritualità giovanile salesiana" aiuta
a fare una scoperta molto bella: i sacramenti non sono separati dalla nostra
vita; sono, invece, dei momenti specialissimi della nostra esistenza: un pezzo
di futuro che attraversa il presente.
Un cambio di prospettiva teologica
La tradizione salesiana ha riservato ai sacramenti una funzione tutta
speciale. Per don Bosco rappresentano i punti di forza (i "pilastri",
diceva lui) dell'educazione cristiana. Per essere fedeli a don Bosco, come
abbiamo fatto con gli altri temi dell'esistenza cristiana, dobbiamo continuare
con quell'atteggiamento di confronto culturale, di cui già abbiamo parlato.
Don Bosco pensava ai sacramenti secondo la teologia del suo tempo, molto diversa da quella che la Chiesa del Concilio propone oggi a tutti i cristiani. Era facile, in quella logica, dividere tra la vita quotidiana e la salvezza. In questa visione, i sacramenti servivano per portare, un po' magicamente, la vita quotidiana nello spazio della salvezza.
La fede e il senso religioso diffuso spingevano a pensare alla salvezza in
modo drammatico. La vita era descritta come una lotta tra il bene e il male. Chi
stava dalla parte del bene, s'impegnava con tutte le sue forze per assicurare
interventi frequenti ed efficaci a favore della salvezza.
I "sogni" di don Bosco e tante sue raccomandazioni erano pieni di
questa sensibilità.
Oggi abbiamo un modo più sereno di vedere le cose. L'Incarnazione ci ha aiutato
a scoprire l'amore di Dio, più forte del peccato, e ci ha restituito il diritto
di amare la nostra vita quotidiana. Per questo, non ci piace dividere
eccessivamente il mondo di Dio e da quello degli uomini. Non ci piace pensare
che i sacramenti siano degli interventi, un poco magici, che ci strappano dalla
vita quotidiana e ci portano nel mondo sacro.
La prospettiva dell'Incarnazione ha aiutato anche a scoprire la presenza di
Dio "diffusa" nella vita quotidiana. La "spiritualità giovanile
salesiana" parla spesso della vita quotidiana in termini di sacramento.
Non possiamo però sminuire l'importanza dei sacramenti e la loro centralità
nella vita cristiana, con la scusa che tutta l'esistenza è piena della presenza
di Dio che salva. Li dobbiamo invece riscoprire da una prospettiva nuova. Anche
questo è un modo di dire la nostra fedeltà a don Bosco e al suo insegnamento.
E' difficile trovare parole per spiegare quello che continua a restare un po'
misterioso. Qualche volta pensiamo di averle trovate... e poi ci accorgiamo che
sono delle belle frasi, che dicono però davvero poco.
Ancora una volta, l'amore è il modo più eloquente per dire qualcosa di più
sui sacramenti e sul rapporto che li lega alla vita quotidiana.
Quando due persone si vogliono bene, tutta la loro vita è una trama continua
d'amore. I gesti concreti che la pervadono manifestano qualcosa che sta sotto
tutta l'esistenza e tutta la percorre come in filigrana.
Se non fosse così, parole e gesti sarebbero falsi: da ricacciare come il
peggiore degli imbrogli.
Qualche volta, le persone che si amano sono costrette a restare lontane. Non
conta né la distanza né il tempo. L'amore ha ritmi, logiche e misurazioni
tutte sue.
Finalmente si realizza l'incontro tanto atteso e sognato. Le due persone sono
l'una nelle braccia dell'altra. L'amore sta dentro la vita. Non si è spento
nonostante l'attesa. Adesso finalmente esplode, in tutta la sua forza.
Quell'abbraccio prolungato e le due lacrime che solcano il viso sono un'espressione specialissima di un amore diffuso e persistente.
Altre volte, purtroppo una nube ha velato l'amore. C'è il greve sapore del tradimento. Qualcosa sembra frantumarsi. Poi ci si riprende. L'abbraccio spegne la paura e il sorriso ritorna. Anche questo è un sacramento: una riconciliazione manifestata nel gesto, che esprime la gioiosa fatica della riconciliazione ricostruita nel tessuto della vita.
Così sono i sacramenti rispetto alla sacramentalità che percorre tutta la
vita cristiana.
I sacramenti sono eventi specialissimi della grazia di Dio. Celebrano la
presenza di Dio nella nostra vita, come in una festa di compleanno tutti si
accorgono del festeggiato... almeno quel giorno. Nei sacramenti è infranto il
velo dell'indifferenza e del silenzio che spesso non ci aiuta a scoprire quanto
Dio sta vicino a noi. La voce di Dio risuona solenne come esperienza di
salvezza.
Senza questa festa, che rompe il silenzio, l'uomo distratto resterebbe triste e
solo, fuori d'ogni personale esperienza di salvezza.
I sacramenti: un tempo speciale per la salvezza
C'è un'altra dimensione importante da ricordare. Tutta la tradizione
cristiana lo dice con forza. E sarebbe grave dimenticarsene, presi dal fervore
di immaginare prospettive un po' diverse dal solito.
Normalmente il rapporto tra cosa e significato è un puro gioco convenzionale,
dove "facciamo finta" di realizzare qualcosa di nuovo. Ma è solo un
modo di fare che non cambia la realtà delle cose. Chi è lontano resta lontano;
il silenzio continua ad avvolgere la realtà; ciascuno è inesorabilmente alle
prese con i suoi limiti e le sue responsabilità.
La tradizione cristiana afferma invece che nei sacramenti Dio è presente
realmente ed agisce efficacemente.
L'amore investe la vita di due persone, la percorre tutta come una specie di
trama sotterranea. Un giorno però i due innamorati immergono il loro amore nel
mistero di Dio, celebrando il sacramento del matrimonio. Si realizza un
misterioso cambio di protagonista. Dio diventa il protagonista principale, che
restituisce una dimensione nuova all'amore che riempie quelle due vite e lo
sprofonda in una lunga storia d'amore in cui c'entra persino Gesù, la Chiesa,
tutti gli altri uomini.
Di sicuro, Dio è protagonista in ogni amore umano, come lo è per tutta l'avventura della vita. Di solito però resta tra le quinte, soffocato dalla nostra voglia di protagonismo. Celebrando il sacramento, lo riconosciamo, gli facciamo spazio, ci affidiamo a lui. Lo dice bene una bella espressione del Vangelo che abbiamo ricordato tante volte nel nostro cammino: "Quando un servo ha fatto tutto quello che gli è stato comandato, il padrone non ha obblighi speciali verso di lui. Questo vale anche per voi! Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare" (Lc. 17, 10).
Eucarestia e Riconciliazione
Gli esempi ci hanno portato verso i due sacramenti con cui siamo in contatto
più frequente: l'Eucaristia e la Riconciliazione.
Attraverso la Riconciliazione e l'Eucaristia, la comunità ecclesiale si proclama davanti al mondo come il luogo in cui Dio gratuitamente opera la salvezza per tutti e testimonia la reale possibilità di vivere la vita quotidiana come accoglienza di questo dono. Denuncia la presunzione di poter vivere senza la salvezza di Dio, ricordando ad ogni uomo che egli è debitore, in tutto e per tutto, all'amore di Dio che gli si dona in Gesù Cristo. Mette la responsabilità personale al centro di ogni incontro di salvezza, perché riconosce di essere, essa stessa, frutto della salvezza di Dio. Rassicura la timida speranza dell'uomo che invoca salvezza, perché propone in modo autorevole le fonti sicure dell'azione salvifica di Dio.
L'Eucaristia fonda la comunità, la ricollega nell'amore e rilancia la sequela. Diventa (come ricorda ai Salesiani il CG23) "un significativo momento dell'edificio educativo del Sistema Preventivo. Dall'Eucarestia infatti il giovane apprende a riorganizzare la sua vita alla luce del mistero di Cristo che si dona per amore. Impara a sottometterla, prima di tutto, alle esigenze della comunione, vincendo egoismi e chiusure. E' portato a ricercare, poi, la donazione generosa di sé, aprendosi alle necessità dei compagni e impegnandosi nelle attività apostoliche, adeguate alla sua età e maturazione cristiana". Più in concreto ancora, come ricordano le Costituzioni FMA (art. 40), "Alimentandosi alla mensa della sua Parola e del suo Corpo, diveniamo con Lui pane per i nostri fratelli".
La Riconciliazione salva la nostra povertà e ci rende nuovi, nello spirito. La "spiritualità giovanile salesiana" fa molto affidamento sulla celebrazione di questo sacramento e dice con forza la necessità di rimetterlo al posto adeguato nella vita cristiana. Lo esigono i molti frutti educativi che dal sacramento scaturiscono: "i giovani sostenuti dall'amore che comprende e perdona trovano la forza per riconoscere il loro peccato e la propria debolezza, bisognosa di sostegno e di accompagnamento. Imparano a resistere alla tentazione dell'autosufficienza. Offrono il perdono come ricambio della Riconciliazione ricevuta. Si educano al rispetto delle persone. Si formano una coscienza retta e coerente" (CG23).
Il clima di festa
L'attenzione all'amore liberante e unificante di Dio dà una tonalità
particolare a questi due sacramenti che sono, in modo speciale, pieni del clima
della festa, della gioia, della speranza. Non c'è Eucaristia e Riconciliazione
salesiana senza la festa che nasce dall'esperienza continuamente rinnovata
d'incontrare il Signore della vita che vince il male e il peccato.
Senza l'Eucaristia, non è possibile comprendere l'esperienza e la vita di
Valdocco e di Mornese.
Don Bosco rileva con molta insistenza la centralità e l'importanza che essa ha
nel suo sistema educativo.
L'Eucaristia è per Don Bosco una realtà che lo tocca nel più vivo del cuore.
Sacerdote e educatore è convinto che l'unico maestro e il primo artefice
dell'educazione dei giovani sia il Signore. Si preoccupa perciò che essi
incontrino personalmente e con frequenza il Cristo risorto nell'Eucaristia e che
si preparino ad essa attraverso la Confessione.
E' la stessa esperienza e preoccupazione pedagogica di Maria Mazzarello. A
Mornese l'Eucaristia è il culmine e la meta di tutta la giornata. La presenza
del "Dio con noi" sotto le specie eucaristiche è una presenza viva ed
operante. A Lui si ricorre con fede viva nei momenti di difficoltà, attorno a
Lui ci si ritrova nei momenti di comune letizia, con Lui s'inizia e si conclude
la vita d'ogni giorno.
Maria, il più bel ritratto di cristiano
Vivere di fede è riprodurre, nella nostra vita quotidiana, lo stile
d'esistenza che ha segnato i grandi santi. Vivere, come don Bosco, la nostra
esistenza come se vedessimo l'invisibile.
Di questo siamo tutti convinti e cerchiamo di immergerci, sempre più
profondamente, nel mistero di Dio per dare alla nostra vita quotidiana il tono e
lo stile che viene dal mistero. Purtroppo non c'è solo l'inquietante problema
della coerenza: non è davvero facile valutare cose, persone e avvenimenti dalla
parte del mistero ed è duro e faticoso mostrare con i fatti il senso di
quest'esperienza. Le difficoltà sono anche dalla parte della scoperta: il
mistero di Dio è così grande, che riusciamo a decifrarne solo qualche
frammento.
Spesso siamo incerti sulla qualità della nostra vita. Non sappiamo se un certo
modo di essere e di fare è meglio del suo contrario. Le espressioni con cui
cerchiamo di sognarci sono sempre molto povere, cariche soprattutto dei nostri
limiti e delle nostre paure.
L'Ausiliatrice
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una mano.
Sembra strano... ma è così: noi siamo gente sicura, non ci piace che qualcuno
ci insegni cosa dobbiamo fare e cosa dobbiamo evitare... eppure nelle cose che
contano di più abbiamo bisogno di una mano sicura.
Questa convinzione ha aiutato la "spiritualità giovanile salesiana" a
riscoprire Maria e a rilanciare il grande amore a Maria che la Famiglia
salesiana ha ereditato da don Bosco e da Madre Mazzarello.
I cristiani hanno riservato un posto specialissimo a Maria nella loro vita. Don Bosco poi aveva un amore filiale nei confronti di Maria. A lui ha fatto eco Madre Mazzarello, con lo stesso entusiasmo e con una sensibilità tutta speciale. Ci hanno insegnato a riconoscerla come Ausiliatrice: aiuto, forte e potente, nei momenti di difficoltà. Il ricordo di Maria Ausiliatrice era legato soprattutto a preoccupazioni di tipo fisico, quelle in cui una mamma si fa in quattro per soccorrere il figlio che ama. Ma è una preoccupazione grave e inquietante anche l'incertezza sul senso della propria vita e soprattutto il dubbio sullo stile d'esistenza da realizzare per vivere fedeli al mistero che la nostra vita si porta dentro.
Per la "spiritualità giovanile salesiana" Maria ha un nome preciso: è l'Ausiliatrice. Ricorriamo a lei nei momenti di difficoltà. Soprattutto la sentiamo vicina quando, come capita oggi, siamo soprattutto incerti sul senso della nostra esistenza.
Viviamo in tempi di trasformazioni e d'incertezze, di trepidazione e d'entusiasmo per il nuovo che avanza. Maria, l'Ausiliatrice, ci indica la via da percorre e ci infonde speranza e consolazione. Abbiamo bisogno di un aiuto sicuro e incoraggiante al livello, tanto difficile, del senso della vita e della speranza. Maria è Ausiliatrice perché ci mostra il volto di un cristiano riuscito e impegnato, lei che è il più bel ritratto di cristiano.
Il volto di Maria
Per scoprire il suo volto, abbiamo meditato il Vangelo. Sono pochi i testi
che parlano di lei, ma sono molto belli e ricchi di indicazioni preziose.
Incominciamo da uno dei più importanti: il Magnificat.
Il Magnificat è una grande preghiera ecclesiale di riconoscimento e di
ringraziamento. Luca la pone sulla bocca di Maria, perché era certo, sulla base
delle fonti di cui disponeva, che esprimeva l'esperienza di Maria. Il Magnificat
è perciò il vero canto di Maria, la testimonianza della sua esistenza
credente. Modello di ogni preghiera cristiana, in Maria è "vero" in
modo privilegiato.
Il Magnificat ci offre una specie di ritratto ecclesiale della giovane donna
di Nazareth, colei che, dopo Gesù, ha penetrato di più il mistero di Dio.
Cantandolo e pregandolo, sentiamo Maria vicina: come madre e come figura del
cristiano.
Leggiamo assieme qualche passaggio:
"Grande è il Signore: lo voglio lodare.
Dio è mio salvatore: sono piena di gioia.
Ha guardato a me, alla sua povera serva:
tutti, d'ora in poi, mi diranno beata.
Dio è potente:
ha fatto in me cose grandi [...].
Ha dato prova della sua potenza,
ha distrutto i superbi e i loro progetti.
Ha rovesciato dal trono i potenti,
ha rialzato da terra gli oppressi.
Ha colmato i poveri di beni,
ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc. 1, 46-55).
Nel Magnificat Maria celebra la novità insperata: Dio si è fatto vicino,
solidale con il suo popolo. E' il Dio fedele: colui che fa alleanza con gli
uomini e resta fedele al suo patto.
Maria si sente immersa nell'amore potente di Dio. Quando dice a sé e agli altri
chi lei è nel progetto di Dio, grida forte questa certezza: la potenza di Dio e
la sua presenza sono il suo volto più vero e solenne. Per questo, lei che si
riconosce piccola, povera, umile serva, è davvero grande: tanto grande che
tutti parleranno di lei.
Anche per Maria il mistero della presenza di Dio è grande, spesso impenetrabile e inquietante. All'Annunciazione manifesta difficoltà e turbamento (Lc. 1, 29 e 34). L'oracolo di Simeone scatena il suo stupore e suscita la trepidazione della meraviglia (Lc. 2, 32). La risposta di Gesù, finalmente ritrovato dopo lo smarrimento che aveva gettato lei e Giuseppe nell'angoscia, la lascia smarrita (Lc. 2, 50). Essa però pronuncia sempre una decisione piena, anche se sofferta. Dice tutta la sua fede nel mistero di Dio. Ci fa veramente compagnia e ci consola nella fatica di vivere la nostra vita quotidiana nella fede.
Maria, nel silenzio e nella preghiera, riesce a penetrare al di là del volto opaco dei fatti. Si trasforma subito nell'assunzione, piena e coraggiosa, della causa del figlio suo: diventa passione perché tutti gli uomini riconoscano chi è Dio e lo sperimentino come il Dio della vita.
Corre dalla cugina Elisabetta, prima ancora di essere chiamata, perché immagina quanto prezioso poteva risultare il suo aiuto. A Cana non permette che la festa finisca per mancanza di vino e sollecita il figlio ad intervenire efficacemente. Nel Magnificat si mette decisamente dalla parte dei poveri, per riconoscere ad essi l'amore privilegiato di Dio.
Maria è la donna fedele, fino alla croce come chiede Gesù a chi ha il
coraggio di condividere la sua causa. Maria, nel silenzio sofferente, consegna
il figlio suo alla morte per la vita di tutti; accetta che le strappino
violentemente il figlio che ha generato per diventare madre di tutti noi, fonte
di vita per tutti, con lui e in lui.
Questo è Maria per noi. Per questo Maria ha un posto privilegiato nella
"spiritualità giovanile salesiana".
Per l'approfondimento:
4. VIVERE LA PASSIONE PER IL REGNO
L'incontro con Gesù e la confessione che solo lui è il Signore, vissuta
nella Chiesa, sono la risposta che ogni cristiano dà alla scoperta affascinante
dell'amore di Dio.
Tutto questo suscita un'esperienza nuova di vita: viviamo tutta la nostra
esistenza come sequela di Gesù.
Seguire Gesù non è come mettersi al seguito di qualsiasi altro maestro. E'
invece qualcosa di profondamente originale, come una folata improvvisa di vento
che butta all'aria tutto quello che avevamo cercato di raccogliere in ordine.
Gesù non ci chiede, prima di tutto, un rapporto affettivo nuovo nei suoi
confronti. E nemmeno ci chiede la decisione di consegnarsi totalmente a lui. Non
gli basta né l'una cosa né l'altra. Vuole molto di più: la condivisione
appassionata della causa che ha riempito la sua vita e l'ha trascinata fino alla
morte.
La vita cristiana è "vocazione": decisione coraggiosa di
decentrare la propria esistenza verso il regno di Dio, il trionfo pieno della
vita sulla morte, nel nome del Dio della vita.
L'esperienza di fede confessata si trasforma in un'esperienza di fede vissuta.
La vita è vocazione
Tutto il Vangelo ci parla della richiesta che Gesù rivolge ai suoi amici: il
coraggio di piegare tutta la propria esistenza verso gli altri, diventando
persone capaci di accogliere il grido che sale dalla loro vita. Una pagina però
merita d'essere ricordata in modo speciale, perché le riassume tutte.
Ascoltiamo il racconto di Luca.
"Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?". Costui rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". E Gesù: "Hai risposto bene; fa' questo e vivrai".
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio
prossimo?". Gesù riprese:
"Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per
caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò
oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò
oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e
n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e
vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese
cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore,
dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio
ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è
incappato nei briganti?". Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di
lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso"" (Lc.
10, 25-37).
"Cosa devo fare per avere la vita eterna?", chiede il dottore della legge con una espressione che nelle Scritture ebraiche indica la "cosa" che conta di più: la verità della propria esistenza secondo il progetto di Dio. Gesù accoglie la domanda e risponde, rimandando alle due condizioni fondamentali suggerite dalla Legge: l'amore a Dio e l'amore verso il prossimo.
Con questo richiamo tutto sembrava risolto. E invece qui si scatena la novità
del Vangelo.
Il dottore della legge riprende la conversazione sul tema in cui riconosce di
avere dei dubbi: chi è il prossimo?
Gesù risponde, capovolgendo le posizioni. Non si tratta di elencare
"chi" è prossimo e chi non lo è, definendo la situazione oggettiva
di partenza. La questione non riguarda gli altri, ma l'atteggiamento personale
nei confronti di chiunque. Gesù chiede infatti di "farsi prossimo".
Trasforma la situazione fisica di vicinanza o di lontananza, in una vocazione,
che interpella la libertà e la responsabilità personale.
L'invito di Gesù è molto impegnativo. L'altro è spesso senza voce: non ha
nemmeno la forza di chiedere aiuto. Eppure, in questa sua situazione, egli è
sempre un forte imperativo per ogni persona. Gesù gli dà voce, invitando ad
accogliere il grido silenzioso di chi soffre e ha bisogno di sostegno.
La parabola ci ricorda perciò che costruiamo la nostra esistenza solo se
accettiamo di "uscire" da noi stessi, decentrandoci verso l'altro.
L'esistenza nella concezione evangelica, è quindi un esodo verso l'alterità e
un superamento d'ogni chiusura nel cerchio ristretto d'ogni egoismo personale,
di gruppo e di nazione. Esistiamo per amore e siamo impegnati a costruire vita
attraverso gesti d'amore.
Noi, come il samaritano, abbiamo la vita eterna, perché nell'atto di amore ci
incontriamo con Dio, l'unica ragione della nostra salvezza.
Dio è il fondamento supremo di questa vocazione all'amore che viene dal
silenzio dell'altro. Lo manifestiamo, lo conosciamo e lo amiamo nella misura in
cui accogliamo, serviamo e amiamo il povero con tutte le nostre risorse.
La vocazione: costruire il regno di Dio
Gesù non si è accontentato di rivelarci il senso della nostra vita e la
direzione verso cui orientarci per viverla in modo serio e autentico. Nelle sue
parole e, soprattutto, nell'insegnamento concreto della sua vita, ha messo
davanti a noi il riferimento normativo di ogni vocazione cristiana: il regno di
Dio. Quello che abbiamo scoperto per la Chiesa, riguarda direttamente ogni
cristiano.
Gesù è l'uomo del regno di Dio, perché ha fatto della causa della vita,
"piena e abbondante" per tutti (Gv. 10, 10), la "perla
preziosa" per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto
il resto (Mt. 13, 45-46).
Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l'uomo. Egli vuole un futuro significativo per l'uomo. Fa della vita e della felicità dell'uomo la ragione e l'espressione della sua "gloria".
L'uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la
speranza.
Consapevole che i suoi problemi sono il problema di Dio stesso, il credente
consegna a lui la sua fame di vita e di speranza.
Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose
meravigliose compiute per il suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
Dove appare lui, l'Uomo del regno, scompare l'angoscia, la paura di vivere e di
morire; ritorna la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
L'ultima convincente parola sul regno di Dio Gesù l'ha pronunciata sulla croce,
quando ha affidato a Dio la sua esistenza.
Consegnato alla morte, perché tutti abbiano la vita, Gesù ha ritrovato la
vita e la speranza per noi. Il Risorto è il segno definitivo che il nostro Dio
è tutto per la vita e la felicità dell'uomo.
La causa di Gesù è dunque la vita piena e abbondante dell'uomo nel nome di
Dio: un uomo aiutato e sollecitato a camminare a testa dritta, capace di vivere
con gioia nella città di tutti, che si affida a Dio nella speranza, perché
solo in Dio possiamo non avere più nessuna paura della morte.
Il compito che il Padre gli ha affidato, Gesù lo consegna ai suoi discepoli.
Gesù dice ai suoi amici: "Come il Padre ha mandato me, così io mando
voi" (Gv. 20, 21). Anello dopo anello, viene costruita una grande catena di
persone, impegnate per la salvezza del mondo. I discepoli chiamano altri e li
mandano. E così la catena dei chiamati si allunga: i nuovi discepoli chiamano
altri con la stessa passione con cui hanno pronunciato il loro sì all'invito, e
li mandano.
Oggi Gesù, i discepoli suoi, i credenti della prima ora della Chiesa, i nostri
amici e i nostri educatori chiamano te e me. E ci mandano. Il compito che ci è
affidato è lo stesso che ha appassionato l'esistenza di Gesù: la causa della
vita.
Su questo compito il cristiano misura la sua esistenza. Siamo ed esistiamo
per continuare a servire la vita, come ha fatto Gesù.
Vocazioni speciali per il regno di Dio
La causa di Gesù è il regno di Dio. Meditando sullo stile con cui Gesù ha
realizzato il regno di Dio, scopriamo più intensamente il senso della nostra
vita: i compiti che ci sono affidati e lo stile con cui possiamo assolverli.
Nel nostro modo comune di dire, quando si parla di re e di regni si pensa
subito a possedimenti e a persone che sono i padroni di queste cose (o fanno
finta di esserlo). Ai tempi di Gesù era la stessa cosa... e persino peggio.
Gesù, in quel momento della vita in cui non c'è proprio nessuna voglia di
scherzare (cfr. Gv. 18), ci tiene a ricordare che lui è re, ma non come gli
altri; il suo regno non è come gli altri regni di questa terra.
La diversità è sostanziale. Lui è re perché si mette a servire fino a
dare la propria vita, come gesto supremo d'amore. Il regno di Dio è la vita
piena e abbondante di ogni persona.
Non è solo vittoria della vita sulla morte. E' la vittoria per la potenza
d'amore di Dio; ed è una vittoria conquistata nell'amore che sa donarsi fino
alla morte.
Impegnarsi per il regno di Dio significa impegnarsi per la vita contro la morte,
chiamando in causa direttamente Dio e il suo progetto. Quando c'è di mezzo la
vita, non è possibile mettere Dio fuori gioco, come se tutto dipendesse solo da
noi. Purtroppo, è tanto facile dimenticarselo. Diventiamo presuntuosi, pieni
della tentazione dell'onnipotenza, con il rischio, tutt'altro che remoto, di
allargare i confini della morte.
Per evitare questa tentazione pericolosa e terribile, ci vuole qualcuno che
si ponga al servizio della vita con un coraggio e una radicalità, capaci di
testimoniare le esigenze irrinunciabili del Vangelo. Per questo, nella Chiesa ci
sono persone generose, che realizzano una vocazione speciale.
Non si può fare un catalogo ufficiale di queste persone speciali, come si usa
nella nostra società con gli albi professionali. Alcune vocazioni sono dense
però di una responsabilità tutta particolare nella logica del regno di Dio.
Queste vocazioni sono, per esempio, gli educatori e le educatrici, gli animatori
e le animatrici dei gruppi giovanili, i catechisti e le catechiste; con una
radicalità specialissima, coloro che hanno accolto il misterioso invito di Gesù
a seguirlo fino in fondo: i sacerdoti e i religiosi e le religiose.
Queste persone sono come una manifestazione speciale di quello che ciascuno è chiamato a realizzare. Sono una specie di manifestazione sacramentale, nella Chiesa e come è la Chiesa, del progetto di salvezza di Dio e della logica con cui Gesù lo sta realizzando. Essi sono uomini e donne del presente, uguali in tutto a tutti gli altri uomini. Si ancorano nel passato per proclamare le meraviglie di Dio per il suo popolo. E si lanciano verso il futuro, anticipandolo nei piccoli segni della vita quotidiana, per attestare la radice della nostra speranza.
La comunità (quella ecclesiale e, più in generale, quella degli uomini) è
riconoscente a questi fratelli e a queste sorelle; invoca incessantemente il Dio
della vita perché susciti in molti il coraggio della radicalità e doni la
perseveranza e l'entusiasmo a chi ha chiamato a percorrere questo sentiero.
L'amore alla vita: una spiritualità della festa
La "spiritualità giovanile salesiana" è una spiritualità della
festa. Essa mette la vita al centro del progetto di esistenza cristiana, perché
ha riscoperto nella vita quotidiana lo stile e la qualità della presenza di
Dio. Confessando la potenza di Dio che opera in Gesù Cristo nella storia
personale e collettiva, l'attenzione alla vita si trasforma subito nella festa
della vita che sta diventando progressivamente nuova e salvata.
La gioia come gratitudine al Signore della vita l'ha insegnata don Bosco e lo
ricorda tutta la tradizione salesiana: "Coraggio e sempre grande allegria,
e questo è il segno di un cuore che ama tanto il Signore." (Lettere di S.
M. D. Mazzarello, 60). La ricerca sulla spiritualità ce l'ha fatto riscoprire
come una esigenza di fedeltà all'Incarnazione.
Possiamo testimoniare che Dio ha fatto già nuove tutte le cose, in Gesù
consegnato alla croce perché la vita trionfi, solo se riconosciamo i segni di
quest'immensa novità, anche nel groviglio dei tanti segni di morte. Per questo,
come Gesù di Nazareth, amiamo la vita, ne assumiamo con coerenza gli aspetti
ordinari, ne accettiamo le sfide, gli interrogativi, le tensioni della crescita,
della mancanza di futuro e delle diverse povertà; operiamo per il superamento
delle ambiguità presenti nell'esperienza giornaliera; fermentiamo con l'amore
ogni scelta.
La festa è così lo straordinario evangelo della vittoria definitiva della vita
sulla morte, anche quando ci sentiamo immersi nel greve sapore della morte
quotidiana.
La croce nella festa del cristiano
La festa non elimina l'esigenza della croce. Ce lo siamo ripetuti in tutti i
toni, proprio quando gridavamo più forte la gioia di aver scoperto il diritto
ad amare la vita e a cercare la felicità.
Nella nostra festa e nella gioia che pervade la nostra esistenza abbiamo molti
motivi seri e concreti per ritrovare il coraggio di piantare la croce di Gesù
anche nel cuore della nostra festa. Alcuni ce li vogliamo ricordare per riuscire
a far dialogare bene festa e croce nella nostra esperienza spirituale.
Il servizio ai fratelli
Siamo gente di festa, viviamo una spiritualità che fa largo spazio alla
festa, perché crediamo al regno di Dio già presente nelle trame della nostra
esistenza. Non possiamo però consumare la nostra festa nel disimpegno e
nell'alienazione, perché viviamo profondamente appassionati della causa di Gesù.
Per questo la nostra festa è un'esperienza di profonda solidarietà con tutti
gli uomini ed è una vocazione ad espandere la vita, perché tutti siano
restituiti alla gioia di far festa.
Nella nostra festa hanno un posto privilegiato coloro che sono normalmente
esclusi dalla gioia di vivere. I pochi fortunati che hanno assaporato la gioia
della vita, vivono perciò la festa come responsabilità per eliminare
progressivamente ogni esclusione.
Questa scelta, qualificante nel nostro progetto di spiritualità, introduce la
vita dura nella nostra esistenza quotidiana. Ci sono sacche di resistenza,
dentro e fuori di noi, da controllare e sconfiggere. E questo richiede il
coraggio della morte. Solo chi trascina il suo amore alla vita fino alla croce,
può costruire veramente vita piena e completa, per sé e per gli altri. Gesù
davvero insegna.
La "mortificazione" del cristiano
La vita, quella che amiamo intensamente e che vogliamo piena e abbondante
per noi e per tutti, si porta dentro un limite invalicabile. Siamo, in qualche
modo, dei "condannati alla morte". Non ci sentiamo rattristati da
questa condanna. La morte incombe su di noi proprio perché siamo vivi.
L'esperienza più bella, quella di essere vivi, si porta dentro infatti la
traccia indelebile del limite che l'attraversa.
E' importante non dimenticarlo, per non scordarci che la casa, costruita quaggiù, è bella e affascinante, ma è solo una tenda: la nostra vera casa è più avanti, nell'oltre radioso della casa del Padre.
Qualche volta ci pensa l'esistenza stessa, quando ci confronta impietosamente
con la morte, il dolore, la disperazione.
Qualche volta decidiamo noi stessi di farne esperienza. E così ci stacchiamo un
po' dalle cose belle che riempiono la nostra esistenza. Non lo facciamo per
disprezzo. Lo facciamo per scelta motivata e riflessa: la serietà e la
consistenza dei "beni penultimi" non può farci dimenticare la loro
provvisorietà e relatività rispetto a quelli definitivi.
Smettiamo, per qualche momento, di goderli, per riconoscerci pellegrini in
cammino verso esperienze più grandi.
Nell'esperienza cristiana quest'esigenza è stata spesso indicata con
un'espressione che non è per nulla felice: la "mortificazione". Non
ci impegniamo nella vita dura perché preferiamo la morte alla vita o, peggio,
perché ci piace anticipare un poco il confronto con la morte.
Ci misuriamo con la morte e ci stacchiamo dalle cose per vivere da vincitori anche quel distacco cui la morte ci condanna inesorabilmente, perché vogliamo amare più intensamente la nostra vita, la vogliamo "possedere" pienamente. E facciamo nostro fino in fondo l'invito di Gesù: "Se il chicco di frumento, caduto nella terra non muore, non potrà di sicuro vivere. Se muore invece, vivrà: il cento per uno".
Questo è lo stile della nostra spiritualità. Chi vuole la vita e gioca la
sua per donarla a tutti, nel nome di Dio, pianta la croce nel centro della sua
vita. Riconosce la passione di Dio per la vita di tutti e si dichiara
disponibile, con i fatti, a perdere la propria vita, come gesto supremo
d'impegno, concreto e storico, per la vita.
Il dovere quotidiano
Un pezzo importante di questa vita dura è anche l'impegno con cui
realizziamo quello che don Bosco chiamava "il dovere quotidiano".
La vera pietà, c'insegna Maria Mazzarello, "consiste nel compiere tutti i nostri doveri a tempo e luogo e solo per amore di Dio". Don Bosco ha insistito molto sul dovere quotidiano da adempiere con fedeltà e nella gioia. Ha saputo coniugare, fondendoli insieme: impegno e gioia, santità e allegria.
Noi oggi usiamo altre parole. Preferiamo parlare di responsabilità professionale, di impegno sociale, di coerenza... Le parole possono certamente cambiare. Non possiamo però rinunciare alla sostanza... ed è facile farlo in un tempo come il nostro in cui le belle parole stentano a tradursi in fatti o riusciamo ad adattare anche gli impegni più seri ai nostri gusti soggettivi.
Dalla parte del "dovere quotidiano" scopriamo che l'invito ad amare la nostra vita è una cosa davvero seria: è un invito ad amare la vita, non solo in certi momenti o quando ci viene comodo, ma sempre, scoprendo che questa vita che amiamo è una vocazione al servizio e alla responsabilità.
Siamo di fronte ad un'esigenza molto impegnativa, che fa soffrire non poco la voglia d'egoismo e di protagonismo che ci portiamo dentro. Ci riporta concretamente alla croce di Gesù e ad una dimensione irrinunciabile dell'esistenza cristiana. Il cristiano è impegnato ad un amore verso gli altri capace di farsi servizio, fino alla disponibilità a "sacrificare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza", come ha fatto Gesù.
Questa è la croce che coraggiosamente piantiamo nel centro della nostra
esistenza.
Il perdono
L'atto supremo della vita dura del cristiano è determinato dalla capacità
di perdonare, fino a costruire riconciliazione dove prima c'era lotta e
divisione. Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte
al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi
giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il
perdono del cristiano è invece un gesto di profonda lucidità, consapevole che
chi fa il male è meno uomo di chi lo subisce: un gesto che vuole spezzare
l'incantesimo del male, rompendone la logica ferrea. Il cristiano perdona per
inchiodare il malvagio al suo peccato, spalancandogli le braccia
nell'accoglienza. Il perdono è l'avventura della croce di Gesù: il gesto,
lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento,
riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla
morte.
Un impegno sociale e politico
Chi ama la vita e la vuole piena e abbondante come la propone il progetto di Dio, si scontra quotidianamente con tante situazioni di morte. Esse lo inquietano e lo provocano. Per questo cerca rimedi efficaci e lotta con tutte le persone animate della stessa sua passione per la vita per assicurare le trasformazioni culturali e strutturali necessarie, in una solidarietà che investe, in prima istanza, coloro cui la vita è stata più violentemente rubata.
Quest'esigenza attraversa la vita quotidiana d'ogni persona seria. Per questo riguarda anche l'esperienza spirituale. Lo ricorda con forza la "spiritualità giovanile salesiana".
L'impegno sociale e politico non è un'appendice della spiritualità cristiana, leggibile solo da qualche entusiasta. E' invece qualità costitutiva. Possono variare i modi, sulla misura della vocazione personale e collettiva; il compito resta, unico e irrinunciabile, per chiunque confessa Gesù come il Signore.
La ragione di quest'affermazione sta nella logica del regno di Dio e nel suo riferimento alla vita quotidiana, che la "spiritualità giovanile salesiana" mette al centro d'ogni impegno vocazionale cristiano.
Come capita per tutte le cose importanti, non basta riconoscere l'urgenza. Chi vuol vivere seriamente la propria esperienza spirituale anche nell'impegno sociale e politico si chiede immediatamente se esistano dimensioni speciali, che servano a qualificare e concretizzare la propria scelta di vita.
La "spiritualità giovanile salesiana", fedele al vissuto di don Bosco, ne propone due: una speranza che sa resistere anche quando le difficoltà sono gravi e sembrano insuperabili, e la fiducia nell'educazione.
Questi due modi di fare esprimono lo stile del nostro impegno politico. Lo
viviamo in compagnia sincera con tutti coloro che condividono la stessa passione
per la vita. Ma non possiamo rinunciare al contributo della nostra fede, per
viverlo da uomini e donne "spirituali".
La speranza "nonostante tutto"
La compagnia del credente con gli uomini, impegnati come lui per la
promozione della vita e il consolidamento della speranza, è sempre molto
originale. La sua esperienza di fede scaturisce dalla testimonianza della croce
e da una speranza che va oltre ogni umana sapienza. E questo lo costringe presto
ad assumere atteggiamenti, a dire parole e a fare gesti che sono solo suoi, che
non riesce più a capire e a condividere chi viaggia solo sull'onda delle
logiche correnti.
Non è facile dire quali siano questi atteggiamenti che costringono il credente alla solitudine nella compagnia. Certamente colpisce una pagina del Vangelo come questa: "Quando arrivarono in mezzo alla gente, un uomo si avvicinò a Gesù, si mise in ginocchio davanti a lui e disse: Signore, abbi pietà di mio figlio. E' epilettico e quando ha una crisi spesso cade nel fuoco e nell'acqua. L'ho fatto vedere ai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo. Allora Gesù rispose: Gente malvagia e senza fede! Fino a quando dovrò restare con voi? Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Portatemi qui il ragazzo. Gesù minacciò lo spirito maligno: quello uscì dal ragazzo, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, lo presero in disparte e gli domandarono: Perché noi non siamo stati capaci di cacciare quello spirito maligno?
Gesù rispose: Perché non avete fede. Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi" (Mt 17, 14-20).
C'è di mezzo la vita: quel povero ragazzo ammalato è come se fosse morto.
Gesù si irrita con i suoi discepoli perché li vede impotenti e rassegnati di fronte alla morte. Non sopporta la vittoria della morte sulla vita.
Riconosce che l'impresa non è certo facile. Per questo chiede d'immergere il problema nel mistero grande di Dio. Qui l'impossibile diventa subito possibile.
E la vita trionfa.
Gesù non l'ha solo detto e fatto per gli altri. Ha creduto alla vittoria della
vita e della libertà, nel nome del Padre, anche quando la morte si è
affacciata violenta nella sua esistenza. Come tutti noi, ha sofferto e pianto.
Poi ha gridato tutta la sua fede. E ha vinto la morte, definitivamente e per
tutti noi.
L'impossibile è diventato possibile per lui, per tanti amici suoi, per noi, perché hanno creduto nella vita e hanno costruito, nel piccolo, i segni della grande promessa.
Ai discepoli delusi Gesù non suggerisce un rimedio più astuto, qualche
medicina magica che solo gli iniziati sono in grado di possedere. Chiama in
causa invece quel poco di fede che può spostare le montagne. Sembra dire: non
ci sono rimedi più raffinati da progettare; si richiede invece un
miglioramento, passando da quello che si vede e si constata al mistero che sta
dentro. Solo a questo livello, in modo definitivo e sicuro, la vittoria
impossibile contro la morte diventa possibile.
La fiducia nell'educazione
Vogliamo continuamente far toccare con mano che il trionfo della vita sulla
morte, impossibile nelle logiche dominanti, diventa progressivamente possibile
nella logica del Crocifisso risorto.
Le vie che rendono praticabile concretamente quest'impegno, sono tante. Don Bosco ce ne ha insegnata una specialissima: l'educazione, secondo lo stile che lui e i primi salesiani hanno chiamato "il sistema preventivo".
La scelta dell'educazione percorre tutta la spiritualità, come stile salesiano per realizzare l'impegno, in ogni profilo professionale.
Noi che vogliamo vivere una spiritualità impegnata al servizio della causa
di Dio nella causa dell'uomo, facciamo dell'educazione la nostra passione, lo
stile della nostra presenza, lo strumento privilegiato della nostra azione
promozionale. Attorno all'educazione organizziamo le nostre risorse. Nel nome
dell'educazione la "spiritualità giovanile salesiana" chiede a tutti
gli uomini di buona volontà e alle istituzioni pubbliche un impegno di
promozione dell'uomo e di trasformazione politica e culturale.
Scegliendo di giocare la nostra speranza nell'educazione, sappiamo d'essere
fedeli al Signore secondo il cuore di don Bosco e di Madre Mazzarello. Come ha
fatto lui, crediamo all'efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione
personale e collettiva e crediamo all'uomo come soggetto di rigenerazione.
Pregare per invocare e lodare
I cristiani hanno un modo speciale e originale per dire la loro fede: la preghiera. Tutti gli uomini religiosi pregano. La preghiera cristiana condivide quest'esperienza comune; e la supera in qualcosa che le è tutto specifico.
Nella preghiera l'uomo parla al suo Dio e gli ricorda preoccupazioni e desideri, sogni e speranze, certo della sua vicinanza. Assomiglia all'incontro con un amico potente, che ha mezzi e capacità per darci una mano. Il cristiano non si vergogna di trattare così il suo Dio. Gesù stesso ci ha insegnato ad invocarlo in questo modo (Mt. 21, 22).
Nella preghiera il cristiano vive però anche un'esperienza diversa. Parla a Dio, facendo la fatica di comprendere nel mistero di Dio la sua esperienza e la storia degli uomini. Si contempla, immerso in un amore che tutto l'avvolge, per possedersi nella verità. Non può dire quello che ha scoperto di sé con le parole controllate con cui si esprime nel ritmo della esistenza quotidiana. Ha bisogno di parole intessute di silenzio, di espressioni pronunciate nel vortice dell'amore, della fantasia scatenata in cui si sono espressi alcuni santi.
Qualche volta le proprie parole non bastano più. E si è contenti di far proprie le parole, solenni e austere, dei salmi, della liturgia, dei padri della nostra fede.
Pregando, il credente parla a Dio e parla di sé e di Dio. Vive di fede e
dice la sua fede.
Noi vogliamo diventare sempre di più uomini e donne di preghiera. Ci piace però
esserlo nello stile di tutto il progetto di spiritualità che abbiamo scoperto.
Per questo, ancora una volta incontriamo don Bosco e Madre Mazzarello. Essi
hanno vissuto l'esperienza della preghiera con grande intensità e in uno stile
tutto speciale. La loro preghiera umile, fiduciosa, apostolica coniugava
spontaneamente l'orazione con la vita. Era una preghiera illuminata dalla Parola
e nutrita dei misteri della fede che diventava lettura del presente e
invocazione.
Per Madre Mazzarello la preghiera doveva possedere una caratteristica fondante: essere di "vero cuore", tale da porre lei e le giovani "nel cuore di Gesù".
Per entrambi i nostri Santi fondatori era una preghiera "aderente alla vita e si prolungava in essa".
Don Bosco e Madre Mazzarello sono un invito a porre la preghiera al centro della nostra esistenza spirituale e c'insegnano a viverla in stile salesiano.
La preghiera fatta con stile salesiano è la preghiera del buon cristiano, semplice e popolare, affonda le sue radici nella vita ed è capace d'incidere sul quotidiano, d'esprimere il senso della festa e di coinvolgere i giovani nella gioia dell'incontro con Gesù attraverso l'esperienza dello Spirito.
Sappiamo che tutta la nostra vita è una grande preghiera: dipende dal modo
con cui la viviamo e dalla passione per il regno di Dio di cui la colmiamo.
Abbiamo però bisogno di momenti speciali di preghiera. Li ricuperiamo nel ritmo
affannoso delle nostre giornate perché abbiamo bisogno di spazi di silenzio e
di tranquillità, in cui godere intensamente la presenza di Dio.
Non facciamo della preghiera qualcosa di magico. Spesso le responsabilità sono
tutte nostre e non le vogliamo rilanciare su Dio, aspettandoci da lui quello che
non c'impegniamo noi a realizzare. Sappiamo però che è un padre buono, che
dona il pane quotidiano ai suoi figli, e dona l'acqua ai campi dei buoni e dei
malvagi. Per questo, con fiducia di bambini nelle braccia della mamma, affidiamo
a Dio anche i nostri progetti e i nostri sogni.
Come hanno fatto tante volte don Bosco, Madre Mazzarello, i primi Salesiani e le prime Figlie di Maria Ausiliatrice, preghiamo "assieme", giovani ed educatori, in una grande comunità d'amore e d'impegno. Preghiamo gli uni per gli altri e preghiamo con gli altri. Sappiamo che don Bosco desiderava che tutti i suoi giovani diventassero apostoli degli altri giovani e li sollecitava a pregare per i propri amici.
Questa è la preghiera che la "spiritualità giovanile salesiana"
promuove e sollecita. Tanti aspetti sono davvero comuni a tutti i cristiani e
siamo felici di metterci alla scuola soprattutto di quei nostri fratelli più
bravi di noi, che hanno già fatto un lungo cammino nella preghiera. Sappiamo
però di dover pregare come don Bosco e Madre Mazzarello ci hanno insegnato. Per
questo, cerchiamo, con gioia e responsabilità, uno stile speciale per la nostra
preghiera: è il nostro piccolo dono alla preghiera della Chiesa.
Contemplativi del quotidiano
Abbiamo costatato, nella fede, che la nostra vita e la realtà che ci circonda è tutta attraversata da un mistero profondo e intenso, che è la sua dimensione di verità. Viviamo immersi in Dio, nella morte e resurrezione di Gesù.
Ci vogliono occhi profondi e capacità d'ascolto e di meditazione, per scorgere il significato della realtà oltre le apparenze. Abbiamo bisogno di silenzio per penetrare in noi stessi, attraversare impressioni, sensibilità, risonanze e giungere al mistero di Dio e di noi stessi.
Questa è l'interiorità nell'esperienza della "spiritualità giovanile
salesiana": spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono
risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di
tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige.
Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso
che proviene dalla diversità. La decisione e la ricostruzione di personalità
nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e
rende concreta la "coerenza" con le scelte unificanti della propria
esistenza.
L'interiorità è il luogo dello Spirito di Gesù che parla dal silenzio e chiama verso il silenzio.
Non è facile. Per questo abbiamo bisogno di aiutarci reciprocamente ad una nuova capacità d'ascesi che ci renda abili a contemplare la realtà, dal mistero che si porta dentro.
Contemplare è traforare le cose per arrivare a possederle pienamente,
sapendo coniugare quello che si vede e quello che resta invisibile allo sguardo
distratto e superficiale.
La contemplazione non è un gesto riservato ai tempi speciali, né riguarda
momenti particolari. Riguarda tutta la vita dell'uomo, perché in tutta la vita
Dio è presente e lo dobbiamo scoprire ed incontrare.
Chi contempla "nel" quotidiano cerca uno spazio separato dove
avvicinarsi a Dio.
Chi invece diventa contemplativo "del" quotidiano, riconosce la
sacramentalità di tutta la sua vita.
Contemplata, la vita è il nostro libro, il luogo in cui vediamo Dio, lo spazio
della nostra sequela.
Contemplandola, ritroviamo una ragione in più per assumere un'intensa passione
per questa nostra vita.
Una spiritualità di comunione e collaborazione
Abbiamo vissuto un'esperienza di comunione intensa, mentre passo dopo passo abbiamo costruito e raccontato la storia della "spiritualità giovanile salesiana". Il noi, di cui parlavamo all'inizio di questa storia, costituito da un gruppo di Figlie di Maria Ausiliatrice, Salesiani e giovani che si sono messi con gioia a raccogliere i tanti elementi sparsi in questi anni attorno al tema della "spiritualità giovanile salesiana", è diventato un noi molto più ampio. Ci auguriamo che tutti coloro che leggeranno queste pagine facciano la gioiosa scoperta di far parte di un noi che da don Bosco e da Madre Mazzarello si allarga fino ad oggi e si lancia verso il domani.
La causa che vogliamo servire è tanto grande e impegnativa che solo allargando il giro di coloro che ci stanno, la possiamo servire pienamente. Don Bosco ha fatto così. Ha scoperto che Dio, in modo misterioso, gli aveva affidato delle responsabilità impegnative per la gioia, la vita e la speranza dei giovani. Si è reso subito conto di non potercela fare da solo. E si è messo all'opera, con coraggio e fantasia, per cercarsi collaboratori. "Vuoi dare una mano a don Bosco?", chiedeva alle persone di cui pensava di potersi fidare. Ed era sottinteso: "Per salvare le anime", come diceva lui. Anche Maria Mazzarello ripeteva spesso alle giovani che sostavano a Mornese: "Sei contenta di stare qui?"; "Ti piacerebbe rimanere per sempre?".
Tantissimi gli hanno detto di sì: giovani e adulti, uomini e donne. Ha suscitato un movimento che ormai tocca tutti gli angoli della terra.
Una cosa ci unisce profondamente: la stessa passione per la vita dei giovani e per il Signore di questa vita. Ci unisce lo stesso progetto di spiritualità.
Quando un gruppo di Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice si sono messi a ripensare questo progetto, per renderlo vivo ed affascinante anche oggi, hanno subito scoperto che l'esperienza, pensata per gli altri, coinvolgeva immediatamente loro stessi in prima persona.
Sono saltate le barriere tradizionali che separavano adulti e giovani, educatori ed educandi, Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, i diversi gruppi della Famiglia salesiana tra di loro. I Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno sperimentato che dono sono i giovani per i loro educatori. Molti giovani hanno vissuto quella responsabilità apostolica che ogni giovane ha nei confronti degli altri giovani. La "spiritualità giovanile salesiana" è un progetto di spiritualità che chiede collaborazione e suscitata comunione.
Lavorando, pensando e pregando assieme attorno al progetto di "spiritualità giovanile salesiana" abbiamo poi scoperto qualcosa di più bello ancora, perché entrava direttamente nella nostra esistenza personale.
Spesso la spiritualità cristiana è stata sperimentata come fonte di divisioni nella vita: tra sacro e profano, tra amore di Dio e amore per i nostri fratelli, tra momenti di preghiera e tempi di lavoro, tra contemplazione e azione...
La "spiritualità giovanile salesiana" ci riconsegna invece una proposta di spiritualità di profonda unità. Gli aspetti che possono essere considerati come alternativi, sono invece le facce di una stessa realtà. Ciascuna ha una sua dignità e una consistenza speciale. Il lavoro è lavoro e corre secondo le sue logiche. La preghiera è un'altra cosa, con ritmi, modalità, atteggiamenti differenti. Eppure lavoro e preghiera, con la stessa intensità, sono il luogo dove Dio si fa vicino a noi e ci chiama, e dove noi l'accogliamo con l'entusiasmo maturo dei figli.
Nel profondo delle nostre piccole o grandi imprese, ritroviamo la causa di Gesù perché ritroviamo la sua presenza, inquietante e rassicurante.
La riscopriamo quando riusciamo a leggerci dentro, nello sguardo penetrante
della nostra fede.
La stessa prassi, compresa alla luce del mistero che si porta dentro, assume così
tonalità diverse. E' prassi operosa per far nuove le cose, dalla parte della
vita; ed è momento di gratuita contemplazione di una presenza che già sta
trasformando da morte a vita tutte le cose. Diamo alla nostra prassi le sue
buone ragioni, nella fatica della nostra scienza e sapienza; e celebriamo una
ragione fondante e donata, che sostiene la nostra debole speranza verso una
speranza senza confini.
Questo è uno degli aspetti più belli della "spiritualità giovanile salesiana", anche perché ci fa scoprire che il nostro modo di vivere nello Spirito di Gesù è un'esperienza di grande compagnia. I Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice e i giovani laici impegnati nella missione educativa e apostolica... non hanno gli stessi compiti, perché devono rispondere a vocazioni specifiche diverse. Tutti però hanno un progetto comune, lo vivono in uno stile profondamente unitario e con una stessa unica indivisa passione. La "spiritualità giovanile salesiana" produce unità nella diversità: mette in comunione sulle cose che contano veramente.
Per l'approfondimento:
5. UNA STORIA CHE CONTINUA
La "spiritualità giovanile salesiana" è "contagiosa":
ha creato un movimento che sta affascinando giovani, Salesiani e Figlie di Maria
Ausiliatrice. Abbiamo raccontato un pezzo di questa nostra storia, perché
vogliamo che la storia continui per la vita e la speranza di tanti altri
giovani.
Il grido dei giovani
E' accaduto per Don Bosco e Madre Mazzarello. Capita la stessa cosa anche oggi. Sentiamo che Dio c'interpella attraverso il grido di tanti giovani: il grido della frammentarietà e della divisione interiore, della solitudine e dell'incapacità di comunicare, il grido dell'impossibilità di inserirsi nella società per la mancanza di lavoro o di mezzi per continuare gli studi, il grido della violenza che sempre di più molti ragazzi subiscono, il grido di esperienze che a poco a poco portano alla droga e all'alcol, il grido della "vita" in una parola. La fame che cerca il pane, l'oppressione che cerca libertà, la solitudine che cerca comunione, la profanazione che cerca dignità, lo smarrimento che cerca sicurezza, l'assurdo che cerca un senso, la violenza che cerca la pace... (CG XXIII p. 88 e CG XIX p. 1819).
Il grido è gemito dello Spirito che abita in ogni persona, all'opera per
generare figli del Padre.
Il grido è essenzialmente "bisogno di salvezza".
Noi crediamo che solo Gesù il Signore è la salvezza. Questo grido diventa per
noi sfida, appello, invocazione alla solidarietà, chiamata alla responsabilità.
Lo ricorda con forza il Papa: "Tocca a voi, ora, chiamati a continuare l'eredità del Carisma salesiano, collaborare all'avvento di una nuova fioritura della santità giovanile in ogni parte del mondo... Non vi sembri troppo alta la missione che si profila dinanzi a voi.
Essa è certamente ardua, richiede generosa dedizione, profonda interiorità, ascolto della Parola di Dio, accoglienza dell'iniziativa divina, audacia di risposte coerenti" (Giovanni Paolo II).
Ci sentiamo chiamati a dare voce a coloro che non hanno voce, a diventare poveri con i poveri, ad assumere la loro causa, a cercare la giustizia per coloro che soffrono ingiustizia, a collaborare per trasformare una realtà che è ancora lontana dal regno di Dio (cf. CG XXIII, p. 88).
"Nell'attuale situazione storica in cui è messa in discussione
l'identità femminile e maschile, sentiamo l'urgenza di impegnarci ad educare le
giovani perché siano portatrici non solo di nuove esigenze, ma anche di nuove
risorse, protagoniste coscienti nella costruzione di una società a misura di
persona" (CG XIX FMA, 40).
Siamo gente che ha una bella storia da raccontare
Vogliamo rispondere a questo grido. In che modo?
La "spiritualità giovanile salesiana" ci suggerisce un modo strano e
speciale nello stesso tempo. Essa è un racconto pieno di parole, come piene di
parole sono le pagine di questo documento che stai leggendo. Eppure, non sono
davvero soltanto parole. Dietro a ciascuna di esse c'è un volto preciso: quello
di don Bosco, di Madre Mazzarello, di tanti Salesiani e Figlie di Maria
Ausiliatrice e di tanti giovani e di tante ragazze, impegnati come laici in
vocazioni di servizio, che hanno riempito la loro vita e quella degli altri di
fatti stupendi.
C'è anche il nostro volto: il mio, il tuo, quello dei nostri amici. Non siamo bravi come le persone grandi che abbiamo ricordato... ma anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo una voglia sconfinata di continuare a raccontare la storia che ci ha appassionato.
L'abbiamo scoperto meditando una pagina della storia della Chiesa delle
origini.
"Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le
tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla
nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta
"Bella" a chiedere l'elemosina a coloro che entravano nel tempio.
Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò
loro l'elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e
disse: "Guarda verso di noi". Ed egli si volse verso di loro,
aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: "Non possiedo né
argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il
Nazareno, cammina!". E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i
suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò
con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide
camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere
l'elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per
quello che gli era accaduto" (Atti 3, 1-11).
Letto così, sembra solo il resoconto di un gesto prodigioso. Invece è importante continuare la lettura del documento.
Lo zoppo, guarito dal racconto della storia di Gesù, grida di gioia con
tanta forza che l'arrestano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando
i sommi sacerdoti vengono a sapere che c'è stato di mezzo Pietro, interrogano
lui, per andare alla radice del disordine.
Qui viene il bello.
Pietro dice: sapete perché questo zoppo cammina "dritto" e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte.
C'è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. La guarigione fisica dice la serietà della proposta; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e d'amore, un sì ad una presenza e vicinanza, tanto vera e reale quanto misteriosa. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c'è vita piena; nonostante l'eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall'oppressione, resteremo prigionieri della morte, presto o tardi. Il confronto con essa è soltanto slittato in avanti di qualche giorno.
Per questo, i discepoli di colui che voleva tutti pieni di vita, si mettono in giro per il mondo a parlare di Gesù e della sua resurrezione.
Non lo fanno solo con belle parole. Parlano con i "fatti", ma poi moltiplicano le parole che ripetono il racconto della storia di Gesù.
Possiamo continuare a raccontare così la storia della "spiritualità
giovanile salesiana"?
Inventiamo frammenti concreti di questo racconto
La risposta è affidata a ciascuno di noi.
Tre preoccupazioni possono rendere concreta la nostra voglia di continuare a
raccontare la storia della "spiritualità giovanile salesiana".
Prima di tutto, siamo sollecitati a diventare testimoni viventi. Non basta conoscere bene la trama della storia. Possono raccontare una storia di spiritualità solo uomini e donne che la vivano intensamente.
In secondo luogo siamo sollecitati ad inventare luoghi concreti dove essa sia sperimentabile e incontrabile. Qualcosa si sta realizzando. Tutti ricordano i grandi incontri giovanili in occasione dei "Confronti" o dei "Campi Bosco". Il Colle dove don Bosco è vissuto è diventato per tanti giovani il "Colle delle beatitudini giovanili". La piccola e povera casetta di Mornese parla ancora dell'esperienza religiosa di Madre Mazzarello.
Sono importanti... ma non bastano davvero. Vanno moltiplicati i luoghi dove si respiri un'aria da "spiritualità giovanile salesiana", dove le preghiere e la condivisione siano la prima e più fondamentale proposta, dove sia possibile incontrare qualcuno che ci parli della storia che don Bosco e Madre Mazzarello hanno iniziato con l'entusiasmo dei primi tempi.
Infine, è urgente un lavoro di riformulazione. La parola, difficile,
rilancia il senso di queste pagine. Esse sono nate dal tentativo di ridire il
vissuto spirituale di don Bosco e di Madre Mazzarello dentro i problemi, le
attese, le speranze di oggi. Non possiamo considerare terminato il lavoro.
Questo è un punto di partenza: affidato a gruppi di Salesiani, Figlie di Maria
Ausiliatrice e giovani, nei diversi Continenti e nelle differenti Regioni del
mondo, può diventare una bella storia, di vita e di speranza, piena della
passione per la vita e dei gesti di speranza, diffusi in giro per il mondo.
La storia continua...
Quello che conta è una cosa sola: la vita e la speranza nel nome del Signore. La storia della "spiritualità giovanile salesiana" può suscitarla e consolidarla. Per questo l'abbiamo raccontata: un dono che gli amici si scambiano con la speranza di suscitare altri narratori.
Chi ci sta, fa quello che tanti Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice e giovani stanno facendo: racconta quello che ha vissuto, scoperto e compreso. Cerca di farlo con i fatti; e si fa aiutare con le parole, per sostenere i fatti e per interpretarli nella direzione giusta.
S'accorge che raccontare una storia del genere è fatica e responsabilità. Racconta perché gli è nata dentro una gioia grande. Non la può soffocare. Racconta con timore e tremore, perché sa di parlare prima di tutto di sé e per sé. Ma non tace: le sue parole hanno la potenza della sua debolezza (2 Cor. 12, 9) e hanno la forza dei tanti testimoni che hanno già giocato tutta la loro esistenza, affascinati dalla storia incontrata.
Racconta con una sola grande passione: tutti riscoprano vita e felicità, quella vera e autentica che Gesù ha regalato al mondo, raccontando la storia di Dio, il Padre buono e accogliente.
Per l'approfondimento: